Si intitola Una canzone senza finale il documentario che ricostruisce l’epopea dei Truzzi Broders, formazione torinese a cavallo tra rock e punk che fece dell’ironia l’arma per combattere la noia, l’assenza di stimoli e la cupezza dei primi anni Ottanta a Torino.
Dopo ventiquattro secondi si sente il primo diofà.
«Ahahah, ma dai. Ti confessiamo una cosa: noi il film non l’abbiamo ancora visto, lo vedremo per la prima volta domenica in occasione della sua prima proiezione al Seeyousound Festival».
A questo punto una spiegazione è d’obbligo: in piemontese Diu faus (Dio falso) è un’imprecazione piuttosto diffusa; quando, negli anni Sessanta. arrivarono gli immigrati dal Sud, quasi tutti destinati ad andare a lavorare alla Fiat, si appropriarono di questa bestemmia storpiandola in diofà. L’uso costante, quasi ossessivo, a volte persino inconsapevole, di questa esclamazione, depotenziò la bestemmia trasformandola in intercalare ricorrente, una sorta di virgola del linguaggio parlato, usata anche per sottolineare qualcosa di particolarmente importante.
Quanti concerti dei Truzzi Broders ho visto? Per usare un’espressione mutuata dal linguaggio calcistico, sono sicuramente in doppia cifra; nel periodo tra il 1982 e il 1986 suonavano ovunque, da soli o in compagnia di altri gruppi dell’epoca quali i Nerorgasmo, i Declino, gli Indigesti, i Kollettivo o i Negazione.
«Suonavamo spesso, anche fuori Torino, soprattutto nei weekend perché durante la settimana alcuni di noi erano impegnati coi loro lavori, quelli con cui mangiavano. Il più delle volte suonavamo gratis, ci pagavano giusto le spese, dormivamo per terra, le condizioni igieniche non erano certo una priorità. Imparammo a registrare i nostri pezzi, facevamo le cassette da vendere ai concerti, facevamo davvero tutto, dai timbri lato A e lato B alle copertine».
Tutto nasce al centro d’incontro Vanchiglia S/balla, luogo di aggregazione con annessa sala prove frequentato dai punk e dai truzzi del quartiere.
«Tecnicamente noi non eravamo dei truzzi, però li conoscevamo tutti. All’inizio la convivenza non fu facile, guardavano con sospetto noi e soprattutto i punk, il loro abbigliamento, il loro linguaggio e la loro musica. Dopo i normali spintoni e ceffoni degli inizi, accompagnati da minacce assolutamente spropositate, al limite del ridicolo, riuscimmo a trovare un equilibrio e a guadagnarci il loro rispetto, al punto che potevamo lasciare l’autoradio in macchina senza che ce la rubassero».
Il punk è stato comunque fondamentale nel farvi prendere la decisione di mettere in piedi un gruppo.
«Certamente, ci fece capire che pur non essendo dei fenomeni di musicisti, ma avendo comunque delle cose da dire, eravamo in grado di salire su un palco e confrontarci con altri ragazzi come noi, spesso addirittura più giovani. Avevamo venticinque, ventisette anni, e nei centri sociali avevamo un pubblico di ventenni, eravamo addirittura vecchi».
L’idea di fare questo film è vostra?
«Ci avevamo anche pensato ma sono stati i fratelli Sarà a contattarci e a esporci il loro progetto. Ci è piaciuto, ci siamo fidati, gli abbiamo fornito tutto il materiale in nostro possesso (VHS, poster, fanzine, recensioni, articoli) e gli abbiamo dato carta bianca. Ci siamo permessi di suggerire alcuni nomi di testimoni di quegli anni per le interviste inserite nel documentario».
A questo proposito Paolo Ferrari de La Stampa a un certo punto del film dice che voi aveste un’intuizione geniale: la rivoluzione non si fa nelle fabbriche o nei centri sociali, si fa sulle panchine dei giardinetti.
«Certo. L’obiettivo di Vanchiglia S/balla era proprio quello di fare un lavoro di strada, di andare a prendere i truzzi là dove vivevano. Era un lavoro di inclusione, una lotta di contrasto all’eroina e al coinvolgimento dei giovani nella criminalità, il tutto, ci teniamo a ricordarlo, fatto grazie a investimenti pubblici messi a disposizione dalle istituzioni».
«La rivoluzione non si fa nelle fabbriche o nei centri sociali, si fa sulle panchine dei giardinetti».
«È così che siamo entrati in contatto con la cultura dei truzzi, fatta di rispetto delle zone, del già citato diofà oppure del minchia, dove tutti i ragazzi si chiamavano Gerry e le ragazze Gessica, con la g. È stato naturale iniziare a scrivere canzoni su di loro, usando il loro gergo e la loro ironia, parlando di scippi, autoradio e faide di quartiere».
C’è stato un momento, intorno al 1988, che sembravate sul punto di fare il salto e afferrare il successo, quello vero.
«Ricordi bene, alcune etichette importanti erano interessate ai Truzzi Broders ma non eravamo pronti a fare i musicisti a tempo pieno, a lasciare i nostri lavori. C’erano le fidanzate, si aveva voglia di costruire qualcosa di solido insieme. Abbiamo scelto diversamente, è andata così. Tieni comunque presente che i Truzzi Broders sono durati fino al 2000: possiamo tranquillamente affermare che per noi gli anni Ottanta sono finiti nel 2000, è stato un tempo persino troppo lungo. A un certo punto le cose finiscono, senza un vero motivo scatenante, finiscono e basta. Ti ricordi quel disco dei Negazione, Lo spirito continua? Nel nostro caso non è stato così, lo spirito è morto».
Il gruppo è tornato, c’è già materiale nuovo per un disco, ci sarà occasione di rivederli sui palchi: nel frattempo c’è questo film da vedere, ci sono le 500, ci sono le Renault 4, ci sono i furgoni scassati che hanno macinato centinaia di migliaia di chilometri, ci sono i punk e ci sono loro, i truzzi. Ne vale la pena.
«Quello ti dice “son coperto, tu domani ti ritrovi col cranio aperto”, non puoi rispondere, non puoi replicare, tu muto devi stare
Sei fuori zona, perché sei fuori zona, perché sei fuori zona».