Walking in the Opposite Direction, il lungometraggio del regista olandese Marc Waltman presentato al festival internazionale Seeyousound di Torino, conduce gli spettatori all’interno della devastante depressione di Adrian Borland, leader di The Sound, gruppo inglese destinato a un successo che non arrivò mai.
2 gennaio 1981: all’Institute of Contemporary Arts di Londra, all’interno della Rock Week che mi dà l’opportunità di vedere gruppi del calibro di The Passage, Basement 5 e Orange Juice, si esibiscono i Sound, gruppo proveniente da South London che ha appena pubblicato il suo album d’esordio Jeopardy, acclamatissimo dalla critica e uscito per l’etichetta Korova, la stessa di Echo & The Bunnymen. La nebbia si taglia col coltello ma il disagio per raggiungere l’ICA è premiato da un’esibizione totalmente coinvolgente del gruppo di Adrian Borland, tanto che all’uscita commento con gli amici coraggiosi che mi avevano seguito: «Questi, tempo un anno, diventeranno enormi».
“Nemo propheta in patria” ma, nel mio caso, anche all’estero: malgrado la pubblicazione di un eccellente secondo album alla fine del 1981, From the Lion’s Mouth, il meritato successo commerciale (quello che arrise a U2, ai già citati Echo Echo & The Bunnymen e agli Psychedelic Furs) non arrivò mai. Come mai? A tutt’oggi rimane un mistero.
Il bel documentario di Waltman si basa su interviste realizzate con il padre di Borland, i suoi ex-compagni di gruppo e i suoi amici olandesi (curiosamente l’Olanda fu l’unico paese europeo dove i Sound godettero di una certa popolarità, e in cui per un certo periodo Borland risiedette), ricostruendo gli inizi della carriera di Adrian quando frontman degli Outsiders, gruppo d’ispirazione punk che registrava i pezzi in casa con Borland padre al mixer, il periodo coi Sound e la carriera solista.
La parte più interessante del documentario è quella che ricostruisce l’evoluzione della depressione schizo-affettiva di cui Borland ha sofferto negli ultimi quattordici anni della sua vita, con ricorrenti ricoveri in strutture psichiatriche, almeno un tentativo di suicidio, un tentativo di uccidere i genitori nel sonno, cure intraprese, cure sospese, abuso d’alcol, miglioramenti improvvisi e altrettanto improvvise ricadute.
Prima di vedere questo documentario ho assistito alla proiezione del bel film israeliano Everything is Broken Up and Dances, dove si evidenzia il potere taumaturgico della musica; qui invece siamo nel territorio opposto, l’ossessione per la musica ha accelerato la distruzione mentale del protagonista, come se quest’ultimo fosse consapevole di avere una sorta di scadenza di lì a poco e quindi sentisse l’urgenza di comporre canzoni con una febbre che l’ha divorato. La vita di Adrian Borland termina il 26 aprile 1999 sotto un treno in ingresso nella stazione di Wimbledon: aveva solo quarantadue anni.
Esco dal cinema con ancora negli occhi il fotogramma di Borland con una T-shirt col volto di Ian Curtis (due suicidi in una sola immagine…) e vengo avvolto dalla nebbia: è come se trentasei anni non fossero passati, sono di nuovo davanti all’ICA di Londra. Mi avvio verso casa e un sorriso increspa le mie labbra.
"il giornale della musica" è media partner di SEEYOUSOUND per l'edizione 2017.