Per il mese di marzo 2021, il giornale della musica aderisce – insieme a decine di riviste, portali web e radio in Europa – all’iniziativa #womentothefore dello Europe Jazz Network, a favore della progressiva parità di genere nelle musiche creative.
In occasione dell’8 marzo è stato reso disponibile sulle principali piattaforme digitali Underplayed: lungometraggio – presentato in anteprima lo scorso anno al “Toronto Film Festival” – nel quale la regista neozelandese Stacey Lee descrive l’inadeguata rappresentazione delle donne nel contesto del clubbing avvalendosi delle testimonianze di artiste come Tokimonsta, Sherelle e Nightwave.
I numeri le danno ragione: fra i cento DJ più popolari al mondo figurano solo cinque esponenti femminili, dato che fa il paio con quello relativo alla quota d’ingaggi nell’agenda di booking dei 150 maggiori club del pianeta, dove gli uomini si accaparrano il 94% del totale.
Muovendosi in una zona limitrofa, un altro documentario afferma tuttavia una visione differente: in Sisters with Transistors, affidandosi alla voce narrante di Laurie Anderson, la film-maker francoamericana Lisa Rovner propone una carrellata sulle pioniere del suono elettronico, fra cui Suzanne Ciani, Delia Derbyshire, Pauline Oliveros ed Eliane Radigue.
«L’elettronica ci consente di fare musica ascoltabile dagli altri senza dover essere legittimata dal Sistema dominato dai maschi».
Una delle interpellate, la compositrice statunitense Laurie Spiegel, spiega a un certo punto: «L’elettronica ci consente di fare musica ascoltabile dagli altri senza dover essere legittimata dal Sistema dominato dai maschi». Concetto ribadito dal magazine web “Dazed” elogiando il lavoro perché «racconta in che modo la musica elettronica e la tecnologia abbiano costituito una forza liberatrice per le donne, sollevate dallo sguardo patriarcale».
Mi è capitato di riflettere sull’argomento a novembre, quando sono stato invitato all’incontro tematico “Press F to Fill the Gender Gap”, organizzato durante “C0C”: la versione distanziata di Club To Club. Paragonando banalmente ciò che avviene nell’area dell’elettronica contemporanea ai trascorsi registrati nella seconda metà del Novecento, la differenza salta agli occhi. Nonostante la concomitanza al crescente impulso all’emancipazione femminile, la scena musicale degli anni Sessanta e Settanta concedeva alle donne spazi angusti: tollerate nel circuito folk, benché fossero eccezioni più che regole, in ambito rock erano condannate a funzioni ancillari (l’epopea da camerino delle groupies) o costrette dalle liturgie del genere a posture maschili, se non addirittura vittime di bullismo (si pensi al caso di Janis Joplin).
E per inerzia quell’assetto gerarchico, riguardante tanto gli artisti quanto i vari addetti ai lavori, si è perpetuato nei decenni seguenti. Cercando conferme alla sensazione che adesso le cose vadano diversamente, ho provato a riesaminare i dischi da me recensiti in questa sede nell’ultimo triennio: ricognizione evidentemente priva di valore statistico, eppure in grado di suggerire qualcosa. Il mosaico è vasto e composito, fra dive avveniristiche (FKA Twigs) e audaci sperimentatrici (Holly Herndon), e implica una complessità di linguaggi impressionante (dalle architetture concettuali di Beatrice Dillon alla dance astratta di Kelly Lee Owens) e una caleidoscopica varietà di etnie da Nuovo Mondo (la statunitense di origine armena Karyyn, l’iraniana a New York Lafawndah, la tunisina in Francia Deena Abdelwahed, oppure Laetitia Temko, alias Vagabon, arrivata in America dal Camerun). Mai visto nulla di simile prima, insomma. Questo poiché la sfera del suono elettronico è intrinsecamente inclusiva. Valga da prova del nove il fatto che ospiti con naturalezza creature anagraficamente maschili ma sessualmente fluide: Arca, Moses Sumney, Yves Tumor, serpentwithfeet.
Al termine di quell’incontro mi è stato chiesto di riassumere in un esempio la suggestione che avevo tentato di evocare. Sono tornato con la memoria all’esibizione di Björk al Sónar di Barcellona nel 2003, di fronte a una platea in larga maggioranza femminile. Guardandomi intorno, credo fosse al momento di “Hyperballad”, vedevo donne cantarne le parole con commossa fierezza e senso di sorellanza: esperienza alla quale assistevo sentendomi un po’ intruso.