Sly Stone, una vita

I ricordi di Sylvester Stewart – alias Sly Stone – in un memoir epocale 

Sly Stone
Articolo
pop

Sylvester Stewart, meglio conosciuto come Sly Stone, ha da poco pubblicato per AUWA Books, la casa editrice creata da Ahmir “Questlove” Thompson, il suo memoir intitolato Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin), proprio come la canzone di Sly and the Family Stone che nel 1969 raggiunse la prima posizione nella classifica statunitense di vendite – il titolo è un intenzionale mondegreen per Thank You (For Lettin’ Me Be Myself Again).

Aiutato dal giornalista e scrittore Ben Greenman – già collaboratore di George Clinton in Brothas Be, Yo Like George, Ain’t That Funkin’ Kinda Hard On You?, di Questlove in Music Is History nonché autore di Purple Life. Genio, funk, sesso ed enigma nella musica di Prince – Sly apre il cassetto dei ricordi e ricostruisce, non sempre lucidamente, una carriera lunga sessant'anni, cinquanta dei quali vissuti in compagnia di angel dust, cocaina e crack.

Sly Stone

In quanto fondatore e personaggio di spicco della Famiglia Stone, Sly è stato senza ombra di dubbio una delle stelle più luminose degli anni Sessanta, un musicista carismatico e pionieristico che non solo è stato il frontman del primo gruppo multi-genere e multi-razziale di una major, ma le cui canzoni incarnarono il disordine e lo spirito del periodo e, almeno nella fase iniziale, rappresentarono una nota positiva e di auto-emancipazione: “Everybody Is a Star,” “You Can Make It If You Try”, “Everyday People”, “Stand!”, “I Want to Take You Higher”, giusto per fare qualche esempio.

Sly and the Family Stone furono pionieri indiscussi di funk, rock e soul music, diventando anni dopo tra gli artisti più campionati nella storia dell’hip-hop, e la loro esibizione elettrizzante a Woodstock li fece diventare uno dei migliori e più richiesti gruppi dal vivo del mondo.

Ma all’inizio del nuovo decennio lo scenario si fece scuro con l’arrivo di droghe, armi e violenza; anche la musica si fece più scura, soprattutto nel focoso There’s a Riot Goin’ On. Sly riuscì a mantenere in alto la propria stella ancora per qualche anno – Fresh! del 1973 è da considerarsi uno dei suoi album migliori – ma la discesa era già cominciata e per la fine dei Settanta si ritrovò senza soldi, tossicodipendente e alla deriva, situazione che in larga parte rimase immutata fino a poco tempo fa. 

E così questo libro, scritto da uno Sly da poco ripulitosi dopo il quarto, drammatico ricovero in ospedale che in ogni caso gli ha lasciato una ridotta capacità polmonare, è una sorpresa ben accolta dai suoi fan, una specie di visita da parte di un amico assente da lungo tempo.

Il tono e il ritmo della scrittura riflettono la vita di Sly – i primi capitoli, per esempio, sono elettrici ed eccitanti, incentrati sulla sua educazione musicale a Vallejo, nella San Francisco Bay Area, e sulla sua crescita come precoce musicista da chiesa (la sua prima registrazione, in cui compaiono anche i suoi fratelli e futuri compagni di gruppo Rose e Freddie, fu un singolo di gospel quando lui aveva 13 anni), poi sull’ascesa come DJ radiofonico con il nuovo nome di Sly Stone – «Sly era strategico, abile», spiega nel suo memoir, «Stone era solido» – e come produttore discografico di successo della Autumn Records nella San Francisco dei primi anni Sessanta, tra cui alcune sessioni con i Great Society, producendo canzoni che più tardi diventarono internazionalmente famose dopoché la cantante del gruppo, Grace Slick, se ne andò per unirsi ai Jefferson Airplane.

«Sly era strategico. Stone era solido».

E poi c’è la storia della nascita e dell’ascesa del gruppo, di come Sly fu capace di rendere il suo messaggio più appetibile riducendo la complessità del disco d’esordio A Whole New Thing (1967) grazie all’introduzione di «the catchiest melody, the most obvious rhythm and the simplest words» nel primo singolo del gruppo a diventare un successo, vale a dire “Dance to the Music” (1968).

Ma per capire meglio la chimica davvero unica del gruppo vi consiglio la visione della loro esibizione del 29 dicembre 1968 al popolare Ed Sullivan Show: un gruppo di musicisti neri e bianchi, uomini e donne, si esibisce di fronte a un pubblico quasi esclusivamente bianco, con Sly e Rose che «lo vogliono portare più in alto»  e vanno a ballare e cantare in mezzo a una platea palesemente imbarazzata e probabilmente incapace di capire la portata di ciò che sta succedendo e Sly che chiude il pezzo urlando «Thank you for letting us be ourselves».

Il singolo di Gil Scott-Heron “The Revolution Will Not Be Televised” arriverà tre anni più tardi, quella sera invece una rivoluzione (e il termine non paia esagerato) andò davvero in onda, e per giunta in prima serata.

Il gruppo raggiunge il vertice con l’epocale album del 1969 Stand! e l’esibizione a Woodstock che rappresentò un inatteso cambiamento culturale (senza dimenticare quella di un paio di settimane prima all’Harlem Cultural Festival, immortalata nel film Summer of Soul di Questlove, premiato lo scorso anno con l’Oscar per il miglior documentario), fino a quando non ci fu più nessun posto dove andare se non giù.

– Leggi anche: Summer of Soul, l'anti-Woodstock

Era una band che poteva e sapeva fare tutto – soul, funk, jazz, rock – il cui esempio portò Miles Davis e la Motown verso la psichedelia. Lo stesso Stone fu Prince prima di Prince. Di fronte a questi musicisti Woodstock rimase a bocca aperta. E allora cosa fu ad andare storto? Tutto.

La carriera di Stone non è crollata da un giorno all’altro: l’album There’s a Riot Goin’ On raggiunse la prima posizione e i due album successivi diventarono dischi d’oro. Nel 1974 il suo matrimonio con l’attrice Kathy Silva al Madison Square Garden di New York fece scalpore, ottenendo una copertura persino dal New Yorker. Ma i dischi successivi ebbero un impatto sempre meno forte, per poi finire dimenticati. Stone si lamenta che i giornalisti erano interessati solo alle droghe e al suo declino, ma è quello che in genere succede quando la musica tace.

Stone sembra avallare l’opinione diffusa e alquanto convenzionale che gli effetti distorti di fama e dipendenza – «contradiction, diction, addiction» – fossero lo specchio dello zeitgeist nazionale. There’s a Riot Goin’ On, strutturato come una risposta irritata a What’s Going On di Marvin Gaye, assaggio del futuro del R’n’B e primo disco pop a impiegare massicciamente la drum machine, era in realtà il suono di un’implosione.

Tristemente noto per dare buca ai concerti già fissati – ovviamente nel libro sostiene che non era mai colpa sua ma ogni volta di loschi organizzatori – Sly si rintanò nella sua villa di Bel Air, ormai il patriarca paranoico di una famiglia sul punto di disintegrarsi e con gli spacciatori in attesa sull’altro lato della strada. Il bassista Larry Graham si convinse che Stone avesse stipulato un’assicurazione sulla sua vita e cominciò a cercare bombe posizionate sotto la sua auto.

Stone smentisce quell’impressione ma conferma, senza un accenno di emozione, un pettegolezzo da far rizzare i capelli: il suo spaventoso pitbull Gun uccise davvero il suo cucciolo di babbuino e poi fece sesso col cadavere. Ancora più spaventoso, Stone descrive Gun come il suo «miglior amico».

Sly Stone oggi ha 80 anni e, a dirla tutta, questa autobiografia è davvero un miracolo che esista: per decenni Sly è stato una sorta di fantasma (il suo ultimo disco Ain’t but the One Way è del 1982), un uomo che è disceso dentro una spirale da incubo fatta di abuso di stupefacenti e ritiro dalla vita pubblica. Dagli anni Ottanta in poi quasi ogni volta che Sly è comparso sui giornali o in tv è stato per qualcosa di terribile: arresti per cocaina – di volta in volta con uno dei suoi “compagni di merende”, cioè George Clinton, Bobby Womack o Ike Turner – e possesso di armi da fuoco, incidenti motociclistici e problemi economici che a quanto si dice lo lasciarono senza casa.

Ci sono stati tentativi falliti di rientro sulle scene prima di smettere anche solo di provarci; le apparizioni pubbliche si sono diradate ulteriormente e Sly è passato da essere scombussolato a profondamente disturbato.

Nel libro Sly è diretto quando parla delle sue cattive abitudini ma non particolarmente dispiaciuto. L’unico accenno di rimpianto è all’inizio del libro quando parla del «rovescio di questa luminosa ed entusiasmante storia del mio successo»; riporto le sue parole: «Il giovane ragazzo, ora un giovane uomo che affronta la dura luce della notorietà; il giovane uomo, ora una stella che si fa strada all’interno di una casa affollata di droghe e armi; la stella, che ora lascia che la sua luce sia affievolita da quelle droghe e quelle armi».

«And different strokes for different folks» - “Everyday People” (1969)

Sly cita spesso articoli di 40 o 50 anni fa, ricostruisce episodi televisivi o legati a concerti della stessa epoca, e dopo un po’ si capisce il perché: dovendo scrivere questo libro, ha dovuto, grazie a questi articoli e ai video presenti su YouTube, ricercare i dettagli della sua vita, evidentemente spariti in una enorme nuvola di crack. A pensarci bene, una situazione davvero surreale.

«Non era che non mi piacessero più le droghe. Se non avessi dovuto scegliere tra loro e la vita, penso che le userei ancora. Ma ho dovuto scegliere e non le uso più» - Sly Stone (o più probabilmente Sylvester Stewart) dopo essersi disintossicato in seguito al quarto ricovero ospedaliero

Il libro finisce con i ringraziamenti per la sua manager nonché ex-fidanzata Arlene Hershkowitz per essere rimasta sempre al suo fianco attraverso i molti su e giù (questi ultimi senz’altro più numerosi) e la gioia per essersi riunito con la propria famiglia, figli e nipoti, che appaiono in molte foto recenti presenti nel libro.

E quantunque non ci siano previsioni in merito alla pubblicazione delle molte canzoni che Sly sostiene di aver composto in questi anni (dobbiamo credergli?), qualcosa che sta cuocendo in forno c’è: Questlove non solo ha pubblicato questo libro e scritto l’introduzione, sta anche lavorando a un documentario su Sly che probabilmente uscirà nel 2024.

Al termine della lettura di Thank You si ha la piacevole impressione di trovarsi di fronte all’auto-reinvenzione di un personaggio che dobbiamo considerare un autentico genio della musica popolare americana: buona vita, Sly Stone!

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