Selfie con dischi PRO #4: Federico Savini

La nostra rubrica dedicata agli ascoltatori forti esplora gli scaffali dei professionisti del settore: giornalisti, critici, uffici stampa…

Selfie con dischi Federico Savini
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Ascoltatori appassionati, collezionisti irriducibili, indomiti sognatori, enciclopedie viventi: dopo i tanti uomini e donne che, pur avendo un altro lavoro, fanno dei dischi e della musica una delle attività più importanti della loro quotidianità, Selfie con dischi parte ora con la sua seconda serie, alla scoperta delle collezioni di chi con la musica ci lavora tutti i giorni: giornalisti, critici, addetti stampa… 

Ai loro mondi di musica, professionali ma anche privati e personali, dedichiamo un veloce ritratto in cui possono raccontare se stessi, la loro passione e, soprattutto, suggerirci un sacco di ascolti!

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Dopo Giulia Cavaliere e Paolo BesanaCarlo Bordone il quarto appuntamento è per Federico Savini.

Selfie con Dischi - Federico Savini

Nome e cognome: Federico Savini

Età: 42 anni da Russi (provincia di Ravenna), 

Professione: professione giornalista. Faccio il redattore degli spettacoli in un settimanale locale e scrivo di musica che piace solo a me su "Blow Up" (molto sporadicamente altrove).

Dischi posseduti: qualche migliaio, in netta prevalenza cd. Non un numero da capogiro, in ogni caso.

Generi preferiti: grossolanamente onnivoro, ma con predilezioni atipiche. Non vi annoio con la lista. Diciamo che più di tutto, da un po’ di anni, amo le musiche “di repertorio”, in cui le canzoni contano più di chi le scrive e di chi le suona.

Quante ore di musica ascolti mediamente al giorno e in che momenti?

«La risposta a questa domanda sarebbe stata diversa 5 anni fa, ma da quando la malattia di Alzheimer è entrata nella mia vita, come unico parente (e di conseguenza caregiver) di un malato, è tutto molto cambiato, specie negli ultimi due anni e mezzo di continua convivenza, con tanto di trasferimento e vigilanza costante. Chi soffre di questa malattia non ne è consapevole, non vuole essere aiutato, quindi per trasferirmi ho dovuto dimostrare che la cosa era improcrastinabile, perché che avevo lavori a casa; da quando ho cambiato le finestre (due anni e mezzo fa) la mia casa è un cantiere e i “benni” dell’Ikea con i miei cd sono tutti “rammassati” uno sull’altro, incellofanati e sigillati con il nastro isolante blu, a testimoniare il valore che hanno per me (chiedete al vostro imbianchino quanto costa lo scotch blu e poi vedrete…)».

«Dove vivo adesso conservo solo i cd-promo che mi arrivano per lavoro, più una piccolissima scorta di dischi giapponesi d’importazione (probabilmente le uniche copie su suolo italiano), a mò di cassetta del Pronto Soccorso. La malattia di cui parliamo implica un monitoraggio continuo del malato e, per poter andare al lavoro, ho una badante a 54 ore settimanali. In pratica ascolto musica in auto, alla mattina molto presto, di notte, spesso con un solo auricolare; negli anni ho sviluppato un autentico “orecchio da mamma” che mi permette di capire a distanza, da suoni impercettibili ai comuni mortali, se nell’altra stanza c’è un problema. L’ascolto della musica è sempre rigorosamente in cuffia, perché i malati di Alzheimer sono disturbati dai più piccoli rumori».

sacchetto di promo -Federico Savini - Selfie con dischi
«Il sacchetto in cui raccolgo i promo».

L'ascolto professionale e quello per piacere sono momenti distinti nella giornata o si mescolano? Raccontaci.

«Non potendo pianificare la giornata lavorativa sulla sola musica (di fatto il mio hobby, ancorché pagato) sono molte le giornate in cui assolutamente non ascolto musica per finalità lavorative. Tendo a concentrare gli ascolti di lavoro in “session” premeditate. Decido, insomma, che la tal giornata la dedicherò all’ascolto per lavoro e non ad altro (questo salvo imprevisti, che naturalmente dove vivo ora abbondano). La malattia di cui parlavo sopra, che ha stravolto ogni mia precedente abitudine e velleità, è arrivata nella mia vita in un momento in cui cominciavo a disamorarmi dello scrivere di musica, e anche dell’ascoltare dischi “per dovere”. Senz’altro ne ho sottovalutati tanti per pregiudizio e mancanza di voglia e tempo. Negli anni recenti, invece, devo dire che la musica è stata per me una vera ancora di salvezza. Spiace essere retorico, ma si è trattato della prova testimoniale non solo del fatto che “là fuori” il mondo andava avanti, ma che permangono tante cose per le quali vale la pena stare al mondo. La musica le sa raccontare benissimo, sa raccontare i luoghi non tanto per quel che sono ma per quello che “sarebbe bello fossero” (e non è solo per sfortuna che personalmente non faccio vacanze dal 2007) e sempre la musica riesce a dare profondità anche a quei sentimenti che, quando vivi in perenne emergenza e hai priorità insindacabili sempre gravose, diversamente ti sembrerebbero irrimediabilmente frivoli, portandoti velocemente a odiare la razza umana. Se non mi è successo, è stato grazie alla musica. E poi concedersi futili rovelli musicologici tiene lontano dal cervello altri pensieri e aiuta a prender sonno. Non mi viene particolarmente spontaneo legare la musica a episodi di vita vissuta. Si è rivelata una fortuna».

«La musica sa raccontare i luoghi non tanto per quel che sono ma per quello che “sarebbe bello fossero”, e sempre la musica riesce a dare profondità anche a quei sentimenti che, quando vivi in perenne emergenza e hai priorità insindacabili sempre gravose, diversamente ti sembrerebbero irrimediabilmente frivoli, portandoti velocemente a odiare la razza umana».

«Quanto detto vale principalmente per ciò che ascolto per piacere, ma negli ultimi tempi concedo più attenzione a tutto quello che devo ascoltare per lavoro. Ribadisco, però, che i due generi di ascolto sono per me cose assolutamente distinte». 

C'è un formato (vinile, cd) che preferisci. Nel caso perché?

«Senza dubbio preferisco il cd al vinile. Ci sono cresciuto, me ne strafrego dei rituali feticistici e poseuristici legati al culto del vinile. E poi su cd si sente pure meglio. Per una vita mi son creduto un amante del lo-fi, ma poi ho dovuto fare i conti col fatto – plateale, un autentico elefante nella stanza – che non amo i dischi live. Mi piacciono i dischi registrati in studio, penso che fonico e produttore contino quanto i musicisti. E, per esempio, non credo capirò mai chi ascolta su vinile roba nata per altri formati. Detto questo, per certe cose esiste solo il vinile e per esempio la mia insana passione per il liscio romagnolo e la country-music può trovare sfogo solo su quel supporto. Sono poi un fan dei vetusti lettori mp3 e non sopporto i servizi di streaming. L’idea che la connessione possa saltare da un minuto all’altro mi guasta l’ascolto in modo aprioristico e soprattutto il telefono mi serve per le emergenze e le app di monitoraggio Gps per soccorrere chi non è più in grado di orientarsi da solo. Se usassi lo smartphone per la musica lo scaricherei di continuo. Stendiamo, infine, un velo pietoso sul fatto che ci sono davvero troppe cose che mi piacciono escluse dai servizi di streaming».

Quando hai comprato il tuo primo disco? Ti ricordi qual era e ce lo racconti brevemente?

«Nulla di memorabile, sennò come giornalista musicale avrei cercato di seguire le orme di Maurizio Blatto, che è fenomenale in queste cose. Parliamo di “acquisto di un cd”, quindi con sborsamento di danaro; eravamo intorno alla metà dei Novanta (non sono stato un appassionato precoce, da ragazzo preferivo il cinema), non ricordo nemmeno se fosse Combat Rock dei Clash o una raccolta dei Black Flag. Ad ogni modo, il primo l’avevo preso per “Should I Stay or Should I Go” e in pratica non avevo capito che non era il punk quello che andavo cercando, infatti quel disco per il resto non mi piacque e lo passai a un amico (ora è suo per usucapione). Dei Black Flag, invece, se non altro compresi al volo che quel gruppo non andava ascoltato su raccolta e pure lì speravo facesse faville la loro versione di “Louie Louie”, che invece non era neanche lontanamente buona quando quella classica dei Kingsmen, che avevo in una cassettina de “L’America del Rock”, una vecchia collana di Repubblica. Ora che ci penso, mi sa che è tutta roba che ho smarrito. Vabbè, tanto adesso c’è lo streaming…».

Dove acquisti principalmente dischi?

«Da quando ho altre priorità acquisto meno, ma purtroppo quel poco è per lo più in rete, anche perché a Ravenna, a parte il fenomenale Rok, in pratica non ci sono negozi di dischi. Ho una certa ritrosia ad acquistare su Amazon, ricordo i bei tempi di Barnes & Noble, prima che appunto venisse fagocitato, e a suo tempo compravo molto da Forced Exposure. Negli anni, i miei spacciatori principali sono diventati il mitico e defunto Volcanic Tongue, il fricchettonissimo Acquarius Records, Eclipse Records, ma anche Squidco per il jazz. Spesso compro su Discogs, che è anche il migliore database in assoluto per formazioni, edizioni, ristampe, liner notes e così via. Per il mercato giapponese, ahimè, Amazon torna utile ma in genere preferisco Cd Japan e Hmv. Qualche volta compro dal distributore specializzato FarSideMusic, dove ad esempio le ristampe di Hosono, Sakamoto, Yasuaki Shimizu e gli altri sono giapponesi, magari in Sacd, e non c’è bisogno di aspettare le etichette hipster che distribuiscono in Occidente. In generale, per quel mercato, il problema della distribuzione esiste ancora, perché si fatica ad orientarsi nei loro siti scritti in kanji e lo streaming è ancora poco battuto da quelle parti (5-6 anni fa in streaming non si trovava proprio niente, pian piano cedono anche loro…)».

Federico Savini - Pronto soccorso cd import giapponesi
«Il pronto soccorso di cd import giapponesi».

Esiste un disco che hai amato tanto e che ora non riesci più a ascoltare, che non ti piace più? Quale e perché?

«Mi capita mooolto più spesso il contrario, del resto sono un redneck di campagna, pieno di pregiudizi che poi è bello superare. Le vecchie passioni ovviamente inaridiscono – mi è capitato con l’adolescenziale grunge, in misura minore con l’improvvisazione radicale e certo indie-rock depressivo –, ma difficilmente arrivo a “rigettare” qualcosa che ho amato. Ricordo che tanti anni fa per un paio di settimane pensai che Solo Violin Improvisations di Polly Bradfield – violinista che martoriava lo strumento sotto lo sguardo complice di Eugene Chadbourne a fine anni Settanta – fosse il disco più fico del mondo. Ecco, oggi forse mi farebbe sanguinare le orecchie. Diciamo che, in generale, ho smesso di andare compulsivamente alla ricerca di ogni cassettina in 10 copie stampata dalla Los Angeles Free Music Society negli anni Settanta e non perdo più la testa quando su Discogs scopro raccolte tipo Iowa Ear Music et similia. C’era un gusto naïf molto “giovanile” nella reliquia esoterica. Oggi preferisco indagare cosa c’è sotto la patina delle sonorità più convenzionali, scoprire le finezze e le invenzioni che si nascondono dietro l’immediatezza delle musiche più “facili”».

Federico Savini Selfie con dischi

Possedendo tutti quei dischi, quante volte in media ascolti in un anno un disco nuovo?

«Dipende dal disco. Quelli che se non fosse stato per il promoter mai avrebbero trovato la strada del mio lettore cd fanno la fine che meritano (ma qualche volta per lavoro ti arriva roba che il promoter lo abbracceresti). Cose come l’ultimo Fiona Apple l’ho… boh, ascoltato 15 volte nei primi tre giorni? Se il senso della domanda è più tipo “quanta % dei tuoi ascolti in un anno è riconducibile a dischi dello stesso anno?” probabilmente stiamo sul 25-30% (perché ci lavoro, sennò meno)».

Ci sono dischi recenti che pensi ascolterai ancora tra 10 anni? 

«Sì, per stare in questo disgraziato decennio gli ultimi due della suddetta Fiona Apple, le cose giapponesi degli Hose e dei Kukangendai, gli ultimi due Mac DeMarco, Casas del brasiliano Rubel Brisolla. In campo jazz gli album più recenti di Steve Coleman, quelli di David Virelles e così pure l’incredibile triplo concept dell’anno scorso di Moppa Elliott. Qualche dubbio in più su Matana Roberts e Darius Jones, ma se li nomino è perché penso potrebbero superare la prova del tempo. Fuori dal jazz il fantastico capolavoro della maturità di Donnie Fritts, Oh My Goodness, il sassofono fuori dal tempo e dalla logica di Masayoshi Urabe, le più belle canzoni di Sufjan Stevens. E sono convinto che, pur perdendoli presto di vista, tornerò ciclicamente a recuperare le cose più recenti di Will Oldham, Bill Callahan e David Berman, tra le loro migliori in assoluto».

«Come si possa produrre grande musica in assenza di grandi immaginari è una cosa che ogni tanto perdo tempo a domandarmi». 

«Nessuno di questi dischi cerca di essere attuale. Ho certamente problemi con i suoni à la page, ma il motivo per il quale credo che gli album più chiacchierati del presente faticheranno a superare la prova del tempo non c’entra con il mio giudizio, ma con il contesto nel quale la musica nasce oggi. Il sistema dello streaming porta soldi a chi totalizza più ascolti gratuiti, anziché premiare chi realizza un prodotto che varrebbe la pena comprare. Tutto il mercato dell’intrattenimento on demand, che somiglia a una guerra tra bande, depotenzia i grandi media generalisti del passato, ossia radio e tv, che per decenni hanno permesso la condivisione degli immaginari popolari su larghissima scala. E come si possa produrre grande musica in assenza di grandi immaginari è una cosa che ogni tanto perdo tempo a domandarmi».

Quali sono i tre dischi che più hai ascoltato (o ritieni di avere ascoltato) nella tua vita di ascoltatore e quelli che più hai ascoltato negli ultimi mesi? 

«Chissà se posso davvero saperlo. Di sicuro io sono uno di quelli che hanno preso Trout Mask Replica di Captain Beefheart per un abbecedario, al punto che verso la fine degli anni Novanta stavo in fissa con i Trumans Water – che a Beefheart si ispirarono molto, pur proponendo della sua ricetta una versione più noise-punk e semplificata – al punto che la loro musica mi sembrava la più normale del mondo. Dovetti proprio rieducare le orecchie, per qualche settimana, per apprezzare qualcos’altro. Ho conosciuto “sul serio” Bob Dylan abbastanza tardi, sui vent'anni, e ho ascoltato Highway ’61 Revisited un numero incalcolabile di volte. Non che avessi qualcosa contro di lui, ma fu davvero uno shock, perché pensavo fosse impossibile che uno “così famoso” suonasse la musica che piaceva a me meglio di quelli che piacevano a me. Una vera lezione. In questo decennio il disco che ho ascoltato di più è senz’altro l’omonimo del ’73 di João Gilberto: mi sconvolge ogni volta la chiarezza e la “gelida nonchalance” con la quale ti sbatte nelle orecchie gli ingranaggi minimalisti di assoluta avanguardia che sovrintendono la musica più bella e più leggera del mondo».

Dovessi consigliare un solo disco (lo so, uno è tremendo, ma è un gioco, dai) della tua collezione a una persona che non lo conosce, quale sarebbe? 

«Oggi ti dico Dysnomia dei Dawn of Midi, del 2013, seconda pubblicazione di questo eccezionale trio di newyorkesi “d’importazione”, che scodellarono un disco semplicemente perfetto di minimal-techno con l’approccio e lo strumentario del piano-trio jazz. Lo consiglio perché sarebbe un crimine dimenticare un disco così e soprattutto perché la riscoperta dell’immaginario e della musica jazz da parte di musicisti hip elettronici e producer hip-hop è stato uno dei leitmotiv con il maggiore potenziale creativo di questo decennio. Che un album del genere – così cristallino, granitico e geniale – rimanga fuori dal novero dei materiali a cui ispirarsi per i più giovani è davvero una roba che – se non mancasse chi già lo fa di continuo senza averne colpa – mi terrebbe sveglio la notte».

Dysnomia - Federico Savini

 

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