Noel Scott Engel – alias Scott Walker – se n’è andato venerdì scorso, all’età di 76 anni, silenziosamente, laddove per mezzo secolo la sua musica è stata invece risonante, fossero le maestose canzoni pop dei Walker Brothers o le audaci esplorazioni concettuali di fine carriera.
Ultimo lavoro portato a compimento, l’anno passato, è la colonna sonora del film Vox Lux di Brady Corbet, regista con cui già aveva collaborato nel 2016 per l’inquietante The Childhood of a Leader, mentre atto discografico conclusivo del suo tortuoso cammino artistico rimane Soused, realizzato nel 2014 insieme ai metallari “mentali” Sunn O))): quarto album in sequenza dal 1995, quando aveva ricominciato a produrne dopo un abbondante decennio di latitanza, realizzando Tilt.
Originario di Hamilton, Ohio, a seguito del divorzio dei genitori si era trasferito con la madre a Los Angeles nei tardi anni Cinquanta. La musica era entrata già nella sua vita, frattanto: reclutato da ragazzino nel cast del musical di Rodgers e Hammerstein Pipe Dream, aveva partecipato poi al varietà televisivo del crooner Eddie Fisher, pubblicando alcuni 45 giri firmati Scotty Engel, senza tuttavia appassionarsi all’idea di cantare.
Cambiò opinione dopo aver suonato per qualche tempo il basso come turnista nello studio di registrazione del produttore Jack Nitzsche: fu determinante l’incontro con il batterista Gary Leeds e il chitarrista e cantante John Maus, con cui formò i Walker Brothers, mutuando il nome d’arte del secondo. I “fratelli” tentarono la fortuna oltreoceano, sbarcando a Londra nel 1965, e fecero il botto, arrivando a rivaleggiare addirittura con i Beatles grazie a canzoni quali “Make It Easy on Yourself” e “The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore”, nitidi esempi dell’aggraziato e malinconico easy listening del trio, basato – alla maniera dei Beach Boys – sulle armonie vocali.
Il ruolo da idolo per adolescenti non faceva però al caso suo: oppresso dal successo e vittima di alcuni episodi di “panico da palco”, nel 1967 Scott Walker abbandonò il gruppo e avviò la carriera da solista, pubblicando nel giro di tre anni un poker di album ordinati nei titoli in sequenza numerica, oltre a un quinto – ripudiato poi da lui stesso – derivato da una serie televisiva che lo aveva visto protagonista sulla BBC.
La distanza fra la sua ispirazione e gli standard del mainstream cresceva di giorno in giorno: una passione conclamata per Jacques Brel (di cui reinterpretò numerosi brani) e l’influenza del cinema d’autore europeo (Bergman, Fellini, Dreyer) lo stavano portando altrove, verso mete niente affatto pop (tipo il monastero sull’isola di Wight dove si recò nel 1968 a studiare canto gregoriano). Tra manie di perfezionismo e debolezze motivazionali, era diventato un divo riluttante: come un Sinatra fuori posto, con quell’inconfondibile intonazione da baritono incline al melodramma. Tempo dopo avrebbe raccontato: «La voce è stata la disgrazia della mia vita, un’arma a doppio taglio: a un certo punto erano tutti convinti che io potessi diventare una star, e ovviamente sarebbe accaduto se avessi scritto canzoni accomodanti, ma non ce l’ho fatta…».
«Sono l’Orson Welles dell’industria discografica».
E così Scott Walker è diventato altro: figura di culto riveritissima, come hanno dimostrato – fra i tanti – David Bowie e i Radiohead, rendendogli omaggio nel documentario biografico 30 Century Man. Non è stato un cammino facile: dopo le difficoltà affrontate negli anni Settanta, che lo spinsero a una dubbia rimpatriata dei Walker Brothers, nel decennio seguente piombò nell’oblio, interrotto nel 1984 da Climate of Hunter, in qualche modo presagio della successiva metamorfosi. «Stavo seduto nei pub a guardare la gente giocare a freccette», rievocava di quel periodo d’isolamento da cui riemerse a fine secolo, portando con sé musiche inaudite, frutto di audaci sperimentazioni: «Sono l’Orson Welles dell’industria discografica», annunciò provocatoriamente in quei giorni. Anche se in una delle ultime interviste affermava: «Non sono assimilabile alle prescrizioni dell’agenda dell’avanguardia e non so a quale categoria appartengo, ma ho smesso di preoccuparmene».
Abitava un territorio tutto suo, Scotto Walker, da fiero ed enigmatico outsider, benché avesse ripreso a frequentare il mondo circostante, lavorando per il cinema (la colonna sonora di Pola X di Leos Carax, nel 1999) e accettando incarichi di vario genere (nel 2000 è stato direttore artistico del festival londinese Meltdown), fino a condividere la propria musica con altri, com’è accaduto in Soused, uscito ad appena due anni di distanza da Bish Bosch, a sua volta preceduto nel 2006 da The Drift.
Ciò non attenuò la sua proverbiale idiosincrasia per il palco, dove non saliva più fisicamente dal 1978.