Si è spento a Milano, dopo un periodo di malattia, il fotografo Roberto Masotti, figura fondamentale di dialogo tra l’immagine e la pratica performativa, specialmente nell’ambito del jazz, dell’improvvisazione e della classica contemporanea.
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Nato a Ravenna nel 1947 e poi trasferitosi a Milano – dove insieme alla moglie Silvia Lelli costituirà un sodalizio umano e artistico dal segno inconfondibile – è stato testimone attivo del fervore creativo degli anni Settanta, muovendosi tra il rock e il free jazz, tra la rivista Gong e John Cage, la Scala, il Battiato beffardo seduto sui divani Busnelli e il Jarrett che spunta tra le gambe di Miles Davis (uno dei suoi scatti giustamente più celebri), collaborando stabilmente con la ECM e dialogando in ottica multidisciplinare con videoartisti e musicisti di diverse generazioni.
Tra i suoi lavori, indimenticabile You tourned the tables on me, serie di ritratti di improvvisatori, compositori, jazziste, in dialogo con lo stesso tavolino – rimediato da Masotti da un rigattiere – e straordinario documento di una stagione creativa fondamentale del secondo Novecento.
Al di là degli aspetti biografici, è per me difficile ricordare la figura di Masotti – cui devo grande riconoscenza per avermi dato da subito amicizia e regalato generosamente qualche scatto, quando le riviste per cui scrivevo non avevano i soldi per pagarli, ma a lui piaceva l’articolo – separando il fattore umano da quello professionale.
Un ricordo, buffo, del suo temperamento schietto, è legato al giornale della musica e alla pubblicazione di una mia recensione di un disco di Enrico Rava per la ECM, in cui alcune mie riserve su come la “freddezza” del suono ECM non giovasse alla musica del trombettista erano state riassunte nel titolo “Rava nel frigo”.
Un giorno, mentre ero a pranzo dai miei genitori, squilla il telefono di casa e mia mamma risponde e mi dice «c’è un certo Roberto Masotti al telefono». Io prendo la cornetta e prima ancora che potessi dirgli «Ciao Rober…» vengo investito da una valanga di insulti del tipo «Io chiudo te nel frigoooo!!», ma bastavano due minuti per ritrovarsi a scoppiare a ridere.
In un epoca di tecnologia sempre più galoppante, con decine di sedicenti fotografi ammassati sotto i palchi del jazz in Italia a sparare inutili raffiche di scatti con obiettivi lunghi mezzo metro, capitava di camminare con Roberto e che senza nemmeno che ce ne si accorgesse, tirasse fuori una piccola Leica e con un solo clic catturasse un mondo di segni.
In un epoca di tecnologia sempre più galoppante, con decine di sedicenti fotografi ammassati sotto i palchi del jazz in Italia a sparare inutili raffiche di scatti con obiettivi lunghi mezzo metro, capitava di camminare con Roberto e che senza nemmeno che ce ne si accorgesse, tirasse fuori una piccola Leica e con un solo clic catturasse un mondo di segni.
Legato indissolubilmente ai nomi con cui si era formato, da Jarrett a Demetrio Stratos, da Arvo Pärt a Carla Bley, non mancava però mai di interessarsi alle esperienze più nuove, di dialogare con artiste e artisti più giovani, di “pensare” in modo fotografico e di fotografare un pensiero.
Mancherà a molti mondi, Roberto Masotti: a quello del jazz, a quello della classica, a quello della fotografia e a quello della formazione, cui aveva dato con generosità docenze di spessore. Ci proveremo, ad accontentarci delle tante bellissime foto che ci ha lasciato, ma, credetemi, non è la stessa cosa.