Blur
The Magic Whip
Parlophone
La solita rimpatriata di rockstar che cercano conforto (e quattrini) rievocando i bei tempi andati? Non esattamente... Giunta al capolinea nel 2003, dopo il disco - Think Tank - e la tournée che avevano sancito l'estromissione dal gruppo del chitarrista Graham Coxon, l'avventura dei Blur era ricominciata sei anni più tardi a suon di concerti, dal primo e memorabile tenuto in Hyde Park alla replica nel medesimo luogo per la chiusura dei Giochi Olimpici di Londra del 2012. Di canzoni nuove ne avevano confezionate strada facendo appena tre: una - "Fool's Day" - per il 45 giri uscito in occasione del "Record Store Day" del 2010 e un altro paio - "Under the Westway" e "The Puritan" - edite nel 2012. Di album non se ne parlava proprio, viceversa.
Galeotto fu il caso: nel maggio 2013 il quartetto si trovava a Hong Kong, liberato in extremis da un impegno in Giappone, e scelse d'impiegare il tempo chiudendosi in sala di registrazione per cinque giorni di sessions basate su alcune bozze accumulate nel laptop da Damon Albarn. Il risultato «suonava bene, ma eravamo incerti su che farne», ha raccontato in seguito Coxon. Morale: il materiale venne relegato in archivio. Finché lo stesso Coxon decise di rompere gli indugi, offrendosi di metterci mano insieme al produttore Stephen Street (già con loro per quattro dischi fra il 1993 e il 1997, ossia all'apice della carriera). Ottenuto il via libera da Albarn, il lavoro si è svolto durante lo scorso autunno e ha fruttato musiche così convincenti da convincerlo a scrivere i testi per la dozzina di brani che ora si ascoltano in The Magic Whip. Titolo a significato multiplo, visto che il vocabolo whip - spiega Tony Hung, l'art director incaricato di curare design e video complementari - «vuol dire gelato in Gran Bretagna, fuoco d'artificio in Cina e "capogruppo" in senso politico», oltre che ovviamente "frusta". Di tutti, sembra prevalere - fa fede la copertina - il primo significato, ben presente d'altra parte in "Ice Cream Man", ballata resa malinconia dal fruscio degli archi e per certi versi affine al mood che permeava il recente debutto di Albarn da solista, Everyday Robots, mentre la cadenza elettronica e meticcia della conclusiva "Mirrorball" fa venire in mente invece le imprese da cartoons coi Gorillaz.
La dimensione proteiforme della sua attività individuale si rispecchia in modo evidente nel profilo sfaccettato dell'album, che tuttavia è inequivocabilmente riconducibile allo stile e alla storia della band (lo dimostrano il delizioso minuetto futurista di "Lonesome Street", in apertura, e l'elegante sviluppo di "I Broadcast"), ancorché distante dall'effervescenza da hit parade del Britpop. Si tratta in definitiva di un'opera matura, concepita e realizzata da individui ormai prossimi alla soglia dei cinquant'anni: consapevoli dei propri trascorsi, senza però esserne ostaggi. Ed è per questo, allora, che le cose migliori di The Magic Whip sono quelle che spostano il discorso altrove: sia in termini geografici (le allusioni all'Estremo Oriente in "New World Towers" e, soprattutto, "Pyonyang") sia dal punto di vista squisitamente musicale, dall'impertinente marcetta scandita in "My Terracotta Heart" alle trame avveniristiche - voce spersonalizzata dal megafono, astrazioni ambient e varie dissonanze - di "Thought I Was a Spaceman". È forse pensando a quest'ultima che Graham Coxon ha definito il disco - ottavo in assoluto dei Blur e primo con lui in organico nel nuovo secolo - come "folk fantascientifico". Missione compiuta, insomma. Il segreto? «Non ce la facciamo a prenderci troppo sul serio», ha confessato il chitarrista a "The Guardian".