Enrico Petrilli è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove sta svolgendo uno studio sulla securitizzazione della notte. Si muove in un territorio poco esplorato, non ancora bonificato dal passaggio degli accademici, e non fa certo fatica ad ammetterlo: «Fare del piacere un campo di ricerca per esplorare sociologicamente la micropolitica del clubbing significa prima di tutto riconoscere la difficoltà di un’impresa del genere». Non esiste ancora il campo dei pleasure studies, neanche nelle Università più temerarie d’oltremanica, e Notti Tossiche. Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere (Meltemi, 2020, pp. 296, € 18) può a ben diritto essere considerato una sorta di pietra fondativa di una disciplina a venire.
Più che sociologo della notte, Petrilli è un esploratore temerario che si muove nel bel mezzo di un campo di battaglia, guilty party in un contesto – quello del clubbing – che vede protagonista una «socialità danzante» di cui questo libro ricostruisce una minuziosa genealogia. Lo abbiamo intervistato per il giornale della musica a qualche mese dall’uscita del libro.
Cosa si intende per clubbing nel contesto di Notte tossiche?
«Per clubbing si può intendere un generico “andare in discoteca”, anche se in Italia la parola discoteca è ormai demodé e si parla sempre più frequentemente di club di musica elettronica. Il clubbing, inteso come fenomeno socioculturale, nasce nella New York anni Sessanta e Settanta, grazie a feste private frequentate da italo e afroamericani, omosessuali e artisti sul lastrico, ma esplode negli anni Ottanta grazie alla house di Chicago e alla techno di Detroit, nelle discoteche di afroamericani e LGBT. Era un mondo sotterraneo che riuniva soggetti ai margini della società benestante americana, ma che ben presto ha sconvolto l’immaginario collettivo sul divertimento notturno».
Il punto di vista che incarni è inedito: è quello del clubber – il frequentatore abituale di eventi di musica elettronica – solitamente poco considerato dagli studi sull’argomento, che prediligono invece «questioni considerate più serie e rilevanti […]: i meriti artistici e commerciali dei dj, la peculiarità e l’innovazione di certe scene o i pericoli celati dietro determinate pratiche». Come mai il clubber, inteso come oggetto di studio, è stato trascurato dalla sociologia standard?
«Negli anni Novanta, il clubbing è stato l’oggetto di molto ricerche interessanti su come questa nuova forma di socialità danzante potesse costituire un attacco allo status quo. Un esempio sono le performance di genere, con i figli della working class che rifiutano lo stereotipo del maschio rude e violento, o le ragazze che sperimentano nuove forme di femminilità… diciamo più desideranti. Tuttavia, più il clubbing è diventato un fenomeno di massa e commerciale, più le pubblicazioni si sono concentrate su elementi “vendibili” come i dj superstar o le scene più cool. Operazioni nostalgiche che nel nostro paese hanno riguardato soprattutto il mondo dei rave. All’opposto, io ho scelto di studiare le esperienze fisiche dei clubber per almeno due ragioni. La prima: per evidenziare come una serata in discoteca sia molto diversa da un concerto rock, perché non c’è una distinzione di tipo gerarchico tra artista e spettatore, ma i clubber comunicano con il proprio corpo in movimento e, relazionandosi con i dj, creano la festa».
«La storia occidentale è stata segnata dal rifiuto dell’immanenza della carne in favore della trascendenza del pensiero. In questo studio adotto una prospettiva opposta».
«E questo ci porta direttamente alla seconda ragione: la storia occidentale è stata segnata dal rifiuto dell’immanenza della carne in favore della trascendenza del pensiero. In questo studio adotto una prospettiva opposta e considero il corpo come strumento di produzione del sapere, di una conoscenza carnale che non avviene attraverso modalità astratte e riflessioni razionali, ma è compiuta principalmente per mezzo delle azioni soggettive e grazie alle sensazioni ed emozioni esperite».
Il libro indaga da un punto di vista sociologico lo «spazio d’azione sul reale» di un atto come quello del frequentare i club, ribaltando l’idea per cui quella del clubbing sarebbe una semplice valvola di sfogo per la rabbia repressa. Esso si configura piuttosto come uno spazio di resistenza. Puoi spiegarci meglio?
«Ancora oggi, il divertimento notturno (come le altre attività del tempo libero) è considerato di secondaria importanza, una perdita di tempo, rispetto al successo scolastico o lavorativo, il prestigio sociale o l’impegno politico».
«Notti tossiche è il risultato di 18 mesi di ricerca etnografica nelle discoteche di Milano e Berlino, in cui ho imparato che ballare su un dancefloor permette un’immersione totalizzante in un nuovo orizzonte di senso (e sensoriale). In un mondo schiavo della razionalità utilitaristica, il clubbing diventa un parco giochi dove è possibile sprecare ore a non essere produttivi; in cui non si è costretti a dare il meglio di sé, ma ci si può abbandonare a se stessi per vivere il momento. Per i clubber, il dancefloor diventa uno spazio per una meditazione sonico-cinestetica che gli aiuta a “spegnere il cervello” e a interrompere quel flusso di pensieri costante, pervasivo e ansiogeno che li perseguita nella vita di tutti i giorni».
Altro oggetto tradizionalmente trascurato dalle scienze sociali è quella che definisci dimensione edonica dell’esistenza. Michel Foucault osservava come l’attenzione delle scienze sociali fosse tutta puntata sul desiderio «e quanto al piacere nessuno sa cosa sia». Che contributo fornisce questo libro a un ipotetico campo disciplinare a venire che evochi più volte, quello dei pleasure studies?
«Purtroppo non esiste (ancora?) il campo di ricerca dei pleasure studies, ma questo non mi ha fermato nel fare del piacere il fondamento della mia ricerca. Contrariamente a quanto si pensi, la nostra è tutto fuorché una società edonista: come ha mostrato nitidamente il filosofo transfemminista Paul B. Preciado, il consumismo ha bisogno di corpi e soggetti eternamente insoddisfatti, pronti a mettere la propria capacità di provare piacere a servizio della produzione di capitale e della riproduzione della specie. Se questo è il presupposto, ho fatto miei gli insegnamenti di quegli intellettuali e movimenti che hanno riconosciuto le potenzialità insurrezionali del piacere, ossia il fatto che il piacere possa configurarsi come uno spazio di sperimentazione e scoperta personale. Non è qualcosa stabilito da parametri esterni o da criteri imposti, ma un sapere pratico derivato dall’esplorazione creativa del soggetto».
«Il consumismo ha bisogno di corpi e soggetti eternamente insoddisfatti, pronti a mettere la propria capacità di provare piacere a servizio della produzione di capitale e della riproduzione della specie».
L’altro oggetto immancabile nel nécessaire del clubber, invece – e mi sto riferendo ovviamente alla droga – è al centro di un rinnovato interesse, tanto che si parla da più parti di rinascimento psichedelico. Come tratti la questione nel tuo libro?
«Sicuramente le droghe – legali e illegali – sono una componente importante del clubbing e al contempo qualcosa di pericoloso, da manovrare con molta cura. È importante comprendere però che non ha senso affrontare la questione del consumo di sostanze stupefacenti come fossimo ancora negli anni Settanta del boom dell’eroina – mi riferisco soprattutto allo stereotipo del “tossico delinquente” evocato di continuo per terrorizzare il pubblico e non affrontare le questioni emergenti. Da allora sono cambiate le sostanze, i contesti, i consumatori e si sono ampliate anche le possibili risposte sociali all’uso di droghe. Mi riferisco soprattutto alla riduzione del danno, vale a dire tutte quelle strategie mirate a ridurre gli effetti negativi correlati all’uso di sostanze in persone che non riescono o non vogliono smettere di assumere droghe. Molto può essere fatto per supportare e implementare queste iniziative».
Il tuo libro è uscito proprio quando i teatri sono stati costretti a chiudere per l’ennesima volta i battenti per l’ennesimo DPCM. Questa contingenza, e in generale il periodo che stiamo vivendo, ti ha costretto a rimodulare qualcuna delle tue tesi?
«L’uscita del libro in coincidenza del secondo lockdown è casuale, ma la sostanza non cambia, a mio parere. Sono molto più interessato a quello che ci aspetta “al di là della soglia”, per rubare un’espressione a Franco “Bifo” Berardi. Tra qualche mese questa crisi sarà, in qualche modo, normalizzata, e allora sarà interessante capire come i clubber risponderanno al distanziamento sociale e al distacco fisico dell’ultimo anno. Ne vedremo delle belle secondo me. In generale, poi, gli ultimi dieci anni sono stati all’insegna della securitizzazione della notte: ordinanze anti-vetro e anti-alcol, poliziotti in assetto antisommossa nelle piazze della movida, chiusura di un numero impressionante di club. Spero che il libro possa contribuire a sovvertire questa modalità “disciplinare” di governance della notte».