Se da qualche mese si parla molto dei Måneskin, da qualche giorno se ne parla molto di più, in seguito alla loro partecipazione al Jimmy Fallon Show – una delle trasmissioni più popolari negli Usa e nel mondo – e in considerazione del fatto che a giorni apriranno il concerto di quel che resta dei Rolling Stones a Las Vegas.
Come per la vittoria di Eurovision, la recente collaborazione con Iggy Pop, la candidatura all'MTV EMA come Best Group e Best Rock e il successo in tutto il mondo dell’album Teatro d’ira vol. I, si tratta di obiettivi fino a poco tempo fa del tutto irragionevoli per una band italiana.
Il che, come spesso accade, ha dato la stura al mugugno social e polarizzato il dibattito, che dagli ambienti più interni all’industria discografica ora attraverso tutto l’internet e colonizza chat whatsapp e occasioni sociali.
Per aiutarvi a sostenere l’immancabile conversazione sui Måneskin al vostro prossimo cocktail party, ho raccolto 6 tipiche affermazioni contro la band che vi capiterà di sentire, con relative obiezioni.
Sono organizzate, come è logico, dalla più apocalittica alla più integrata.
1. I Måneskin sono commerciali! La musica vera è un’altra cosa!
Complimenti, avete raggiunto il livello “Adorno” nel grande gioco della critica musicale! Nel 2021 siamo ormai quasi pronti a superare le posizioni apocalittiche della Scuola di Francoforte per abbracciare – non necessariamente con serenità – il fatto che viviamo in una società capitalista, in cui tutta la musica è commerciale. Fin almeno dai tempi di Beethoven («Che era Beethoven», come ben spiega Francesco Guccini nei “I fichi”) la musica è anche una merce che viene comprata e venduta, e dunque è soggetta alle regole d’impresa.
L’idea che una musica che non sottoposta a queste regole sia “migliore” di una che vi aderisce è un residuo del Novecento per inguaribili pasoliniani, che rimpiangono quando i bei tempi quando non c’era la tv, i contadini erano ignoranti e felici e si potevano mangiare anche le fragole.
Nel caso dei Måneskin l’investimento commerciale è stato a dir poco importante (a leggere i bilanci della società che li gestisce, commentati dal Sole 24 ore la scorsa primavera, parliamo ragionevolmente di un paio di milioni di euro prima di vedere del vero utile). Risultati di questo genere non si ottengono, naturalmente, caricando una traccia su Bandcamp e aspettando. Quindi, sì, i Måneskin sono commerciali. So what?
2. I Måneskin sono costruiti a tavolino!
A dispetto di quanto hanno sostenuto quegli autorevoli watchdog della democrazia e della più fresca critica musicale che sono i quotidiani italiani no, i Måneskin non hanno fatto “la gavetta”. Non basta una foto da busker scattata in via del Corso a Roma per conferire street credibility a una band nata nel 2016 e che nel 2017 era già a X Factor (che poi: provate a fare il busker in via del Corso a Roma se non siete giovani, carini e puccettosi e vediamo che succede con i vigili).
Dunque, sì, i Måneskin sono stati costruiti a tavolino da un apparato il cui obiettivo è l’utile. Se pensate che questo sia necessariamente un male, tornate al punto 1.
3. I Måneskin non hanno talento!
Scriveva il sociologo Simon Frith che il talento è attribuito e descritto individualmente, ma esiste solo come fatto sociale. Dunque, cos’è il talento? È la differenza tra un’abilità meramente tecnica («Sa suonare la chitarra») e una musicale (l’avere qualcosa – il talento – che viene riconosciuto da altre persone come tale e che va oltre un aspetto puramente pratico).
Quindi, nonostante il talento funzioni più o meno come la santità (in una prospettiva agnostica, uno è santo perché le altre persone credono lo sia), tendiamo a pensarlo come se fosse un cromosoma (cioè qualcosa che uno ha e basta). Tautologicamente, il talento è la dote di quelli che hanno talento, e hanno talento quelli che vengono riconosciuti come dotati di talento dalla società in cui vivono.
I Måneskin hanno talento? Se hanno ottenuto quello che hanno ottenuto, evidentemente, sì. Ma forse, semplicemente, questa obiezione non è pertinente.
4. I Måneskin non sanno suonare!
La critica secondo cui una band è “scarsa” solo perché non sa suonare i propri strumenti attraversa la storia del pop fin dal tempo dei Monkees, come ci ricorda Marge Simpson.
È una critica ragionevole fino a un certo punto: da un lato, musicisti di valore rosicano (anche con buone ragioni) nel vedere che anni di studio e pratica vengono bypassati dalla prima ragazzina che maltratta un basso Danelectro (un bellissimo basso Danelectro, sia detto per inciso). Dall’altra, ancora, l’obiezione ha a che vedere con quello che intendiamo con “saper suonare”: nel riconoscimento del talento (tornate al punto 3), la tecnica c’entra poco. Lo spettro di che cosa significa "suonare" del 2021 è, peraltro, molto ampio e non può esaurire i discorsi sul valore estetico, che riguardano sempre e comunque anche altri aspetti.
5. Ma è musica vecchia, già sentita!
Vero. Ma in una cultura per cui il 90 percento degli appassionati di musica sbava da mesi perché è in arrivo qualche ora di filmati inediti dei Beatles in studio, davvero ci turba che abbia successo una band che riprende pari pari l’immaginario del rock anni settanta? Certo, la fine del “nuovo” in musica è un problema innanzitutto politico, come hanno sostenuto acutamente sia Mark Fisher sia Simon Reynolds, e riguarda in primis la capacità che ha una cultura di immaginare il suo futuro, di ripensarsi, di migliorare. Ma non è un problema che possono risolvere i Måneskin.
È curioso poi che quasi nessuno problematizzi questa obiezione – forse la più sentita nei discorsi contro il gruppo – pensando al fatto che buona parte del pop di alta classifica degli ultimi anni riprende pari pari il sound anni ottanta. Perché la musica dei Måneskin viene criticata come vecchia e The Weeknd e Dua Lipa no? Tutti e tre sono prodotti, evidentemente, retrò. Solo che gli ultimi due rivolgono la loro nostalgia verso un altro decennio.
Se volete poi spiazzare il vostro interlocutore, potete poi ricordargli o ricordarle come tutto il rock si sia sempre alimentato di vecchia musica, fin dai tempi dei Rolling Stones, che facevano cover dei bluesmen americani tanto amati da Jagger e Richards. Palla nel sette.
6. Com’è possibile che una band italiana abbia tutto questo successo negli Stati Uniti? C’è qualcosa sotto.
Questa obiezione, che implica almeno un paio dei primi cinque punti, non tiene conto dell’attuale situazione dell’industria musicale. È vero, il successo dei Måneskin è qualcosa di inaudito, per come ha funzionato fino a ora la filiera della musica: le eccezioni nella storia della classifica americana portano il nome di Domenico Modugno con “Volare” e Umberto Tozzi con “Gloria” (sì, esatto, Umberto Tozzi è uno dei musicisti italiani di maggior successo di sempre. Prendetevi un momento per rifletterci).
Tuttavia, la definitiva affermazione dello streaming – che dal 2017 ha superato ogni altra forma di vendita – sta ridisegnando anche le geografie del pop globale, favorendo paradossalmente l’emergere di mercati fino a ieri periferici come quello italiano. Di recente ha fatto scalpore (meno dei Måneskin) il fatto che Flop, il nuovo album di Salmo, sia arrivato al primo posto della Top 10 Global Album di Spotify. Un risultato inatteso, che si spiega però più con le nuove logiche del binge-listening tipico di chi usa piattaforme come Spotify che non con il fatto che all’estero le persone abbiano cominciato ad ascoltare la musica italiana. I Måneskin sono figli di questo nuovo mondo.
Allo stesso tempo, non bisogna dimenticare che i Måneskin hanno successo nell’ambiente rock non solo nonostante siano italiani, ma soprattutto perché sono italiani. La musica italiana ha sempre avuto un suo seguito all’estero, forte di una certa aspettativa nei confronti dell’italianità, ben rappresentata da fenomeni come Il Volo o Bocelli. Una certa idea di Made in Italy c’è evidentemente anche nei Måneskin, se hanno recentemente pubblicato un singolo intitolato “Mamma mia” in cui Damiano canta tongue-in-cheek: «They ask me why I'm so hot, 'cause I'm Italiano».
«They ask me why I'm so hot, 'cause I'm Italiano».
Casomai, se Il Volo piace al pubblico americano proprio perché ripropone uno stereotipo di canzone italiana adattato agli stilemi del pop internazionale, i Måneskin piacciono perché fanno esattamente il contrario. Sono in sostanza Il Volo alla rovescia: propongono un genere ben codificato e chiaro, senza innovazioni (il rock anni settanta) ma ci aggiungono una spruzzatina di esotismo (ed erotismo) latino.
Bene, siete pronti a sostenere la vostra prossima conversazione sui Måneskin.
Si ringrazia la chat Whatsapp "La pipa e il rasoio" per gli spunti di conversazione.