Perché Blowin' in the Wind?

In Perché Bob Dylan (EDT) Richard F. Thomas racconta l'importanza della canzone "di protesta" più famosa al mondo

Bob Dylan Blowin in the Wind
Articolo
pop

Il 16 aprile del 1962 debuttava dal vivo una della canzoni più famose di sempre, “Blowin’ in the Wind” di Bob Dylan. Pubblichiamo un estratto da Perché Bob Dylan di Richard F. Thomas, da poco pubblicato in traduzione italiana da EDT (320 pp., 20€).

– Leggi anche: Dylan e “Murder Most Foul”: American Graffiti e canzone omerica

Richard F. Thomas, inglese ma cresciuto in Nuova Zelanda, è docente di Letteratura classica nella Harvard University e autore – tra le molte cose – di importante commentario alle Georgiche di Virgilio, oltre ad animare da molti anni un popolarissimo seminario su Bob Dylan per gli studenti di lettere classiche nella Harvard University. Il suo Perché Bob Dylan, apparso nel 2017 negli Stati Uniti, è già un classico degli studi sul cantautore.

Perché Bon Dylan - Richard F Thompson - blowin in the wind

Come molti miei coetanei cresciuti negli anni Sessanta, il primo Dylan di cui feci esperienza fu quello delle canzoni a sfondo sociale. A tredici o quattordici anni cantavo “Blowin’ in the Wind” con il coro della mia scuola in Nuova Zelanda. Tratta dal suo primo album di composizioni originali, The Freewheelin’ Bob Dylan, quella canzone fu la mia prima vera introduzione alla sua musica, anche se ne conoscevo già la versione portata in vetta alle classifiche dal trio folk Peter, Paul & Mary. Cantandola insieme al mio coro, ricordo di aver trovato un po’ fastidiosa l’“aggiunta” prima di ogni domanda delle parole “Yes ’n’”, che invece non c’erano nella versione che avevo registrato dalla radio (per intenderci: “Yes, ’n’ how many seas must a white dove sail” e così via). Lo feci notare al nostro maestro, ma a quanto pareva lui era già un fan di Dylan, perché si impuntò: il pezzo andava cantato così com’era interpretato in Freewheelin’, e nel giro di poco finii anch’io per preferire quella versione.

Potevamo cantare e fare nostra quella canzone in Nuova Zelanda perché “Blowin’ in the Wind” non apparteneva a nessun luogo o tempo specifico, o meglio, era un appello alla giustizia e alla pace adatto a ogni luogo e ogni tempo. A distanza di pochi anni, nel 1969, la canzone assunse un significato nuovo e più personale per me, quando mi unii come membro dell’organizzazione studentesca HART (Halt All Racist Tours) alle proteste contro la partecipazione della nazionale neozelandese ai campionati di rugby disputati nel Sudafrica dell’apartheid. A quel punto la rilevanza di “Blowin’ in the Wind” aveva superato i confini ristretti del movimento americano per i diritti civili che in origine l’aveva ispirata. Ormai parlava anche di Nelson Mandela e degli altri militanti che il regime dell’apartheid aveva condannato all’ergastolo e ai lavori forzati su Robben Island – un luogo di confino chiaramente visibile dalle splendide spiagge di Cape Town.

Potevamo cantare e fare nostra quella canzone in Nuova Zelanda perché “Blowin’ in the Wind” non apparteneva a nessun luogo o tempo specifico, o meglio, era un appello alla giustizia e alla pace adatto a ogni luogo e ogni tempo.

Fino al 1967 la Nuova Zelanda selezionava per razza i giocatori della nazionale da mandare a competere con le squadre di soli bianchi del Sudafrica. Ai maori era concesso di giocare in virtù dello status di “bianchi onorari”. Era quasi inevitabile pensare ai versi della canzone – “Yes, ’n’ how many times can a man turn his head | Pretending he just doesn’t see?” (“E un uomo quante volte può voltarsi | e far finta di non avere visto?”) – mentre partecipavo alle manifestazioni. “Blowin’ in the Wind” diventò il nostro inno anche nelle proteste contro il coinvolgimento – militarmente insignificante ma simbolicamente rilevante – del mio paese nella guerra del Vietnam: “Yes, ’n’ how many times must the cannonballs fly | Before they’re forever banned?” (“E le palle di cannone quante volte dovranno volare | prima di abolirle per sempre?”).

In quelle circostanze la canzone dimostrò la stessa pertinenza che aveva avuto nella marcia su Washington, il più oceanico dei raduni per i diritti civili, inscenato il 28 agosto 1963. In quell’occasione erano stati Peter, Paul & Mary a interpretarla, mentre Dylan aveva cantato due pezzi tratti da un nuovo album ancora inedito, The Times They Are A-Changin’: prima “When the Ship Comes in”, insieme a Joan Baez, e poi “Only a Pawn in Their Game”, da solo. Ma a dispetto del suo ruolo storico in momenti come questi, né allora né oggi “Blowin’ in the Wind” si può etichettare soltanto come canzone di protesta.

La prossima non è una canzone di protesta o niente del genere, perché io non scrivo canzoni di protesta.

Fin dalla prima esecuzione ufficiale, nell’aprile 1962, al Gerde’s Folk City del Greenwich Village, Dylan ha cercato in ogni modo di liberarla da quel compartimento stagno. Ecco in quali termini il cantautore – va sottolineato, perché questo era Dylan: un cantautore, non un militante – la presentò allora:

La prossima non è una canzone di protesta o niente del genere, perché io non scrivo canzoni di protesta […]. L’ho scritta soltanto come qualcosa che si potrebbe dire, per qualcuno, da parte di qualcuno.

Troppo tardi.

Per citare il poeta latino Orazio (65-8 a.C.), “una parola detta prende il volo, senza rimedio” (Epistole, i, 18, a Massimo Lollio).

Dylan non poteva fermare il volo della sua canzone, ma nel giro di poco smise di interpretarla in concerto. Nel decennio in cui “Blowin’ in the Wind” diventò un inno di protesta, il suo autore la eseguì appena una manciata di volte, compresa una performance memorabile in occasione del suo debutto al Newport Folk Festival, la sera del 26 luglio 1963.

[…] Con il passare degli anni, agli occhi di chi aveva smesso di seguire la sua evoluzione musicale, aveva fischiato i suoi concerti del 1966 e si era radicalizzato con l’intensificarsi del conflitto in Vietnam, Dylan apparve come congelato nel tempo, un cantautore ancora attuale solo per la manciata di canzoni con cui aveva debuttato. Restava spendibile per i suoi pezzi di protesta, incatenato alla versione acustica di “Blowin’ in the Wind”. “Masters of War”, un altro pezzo di punta di The Freewheelin’ Bob Dylan adottato come inno pacifista, si rivolgeva direttamente ai costruttori di armamenti, che mandano i giovani a morire nelle guerre con cui si arricchiscono. Come “Blowin’ in the Wind”, nella mente di chi stava per ricevere la cartolina la canzone restò associata in modo indelebile alla guerra del Vietnam. La dichiarazione con cui nel 1962, al Gerde’s, Dylan aveva negato di scrivere canzoni di protesta non aveva funzionato. La sua musica era stata da subito troppo potente per non assumere vita propria. Lui stesso non si presentò alle manifestazioni di protesta del 1965 a cantare “Blowin’ in the Wind”, ma furono moltissimi a prendere il suo posto, dalle celebrità come Joan Baez e Judy Collins agli sconosciuti e anonimi, cantandola alle marce, alle assemblee dei sindacati studenteschi, nei dormitori dei college, e ovunque si trovassero i militanti del movimento pacifista, dagli Stati Uniti ad Auckland e in tutto il mondo. Nelle parole di un attivista del movimento studentesco, Todd Gitlin, «volente o nolente, Dylan cantava per noi [...]. Noi seguimmo la sua carriera come se stesse cantando le nostre canzoni». […]

Perfettamente classica per forma e struttura, “Blowin’ in the Wind” è un esempio paradigmatico della poetica e dell’arte di Dylan. Consiste di tre strofe, ciascuna con tre domande, e ogni domanda prosegue per due versi ed è seguita dallo stesso distico di risposta:

How many roads must a man walk down Before you call him a man?
Yes, ’n’ how many seas must a white dove sail Before she sleeps in the
sand?

Yes, ’n’ how many times must the cannonballs fly Before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind The answer is blowin’ in the wind

How many years can a mountain exist Before it’s washed to the sea?
Yes, ’n’ how many years can some people exist Before they’re allowed to be
free?

Yes, ’n’ how many times can a man turn his head Pretending he just doesn’t see?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind The answer is blowin’ in the wind

How many times must a man look up
Before he can see the
sky?
Yes, ’n’ how many ears must one man have
Before he can hear people
cry?
Yes, ’n’ how many deaths will it take till he knows That too many people have
died?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind
The answer is blowin’ in the wind

Il refrain insistente che dovrebbe rispondere alle domande di fatto non offre soluzioni, ma pone a sua volta un problema: “The answer is blowin’ in the wind” significa che il vento si sta portando via la risposta, disperdendola per sempre, oppure che la sta trascinando verso di noi, suggerendoci un modo di mettere fine alle ingiustizie denunciate in quei nove insistenti quesiti? I critici latini avevano un detto: «L’arte della poesia consiste nel non dire tutto». Il refrain di questa canzone, e anzi, larga parte dell’arte di Dylan, fa esattamente questo: evoca nella nostra immaginazione la possibilità di una risposta, ma lascia a noi la responsabilità di formularla.

«L’arte della poesia consiste nel non dire tutto». Il refrain di questa canzone, e anzi, larga parte dell’arte di Dylan, fa esattamente questo: evoca nella nostra immaginazione la possibilità di una risposta, ma lascia a noi la responsabilità di formularla.

Per colmo dell’ironia, il vero motivo dei timori di Dylan sul modo in cui la canzone sarebbe stata incasellata potrebbe essere tutt’altro. Una delle sue prime e più note interviste ebbe luogo nel maggio 1963, al programma radiofonico di Studs Terkel sulla WFMT di Chicago. Il giovane cantautore era in città per un concerto in un locale del posto, il Bear. L’intervista non è inclusa nella raccolta pubblicata da Terkel nel 2005, And They All Sang, perciò non è reperibile in The Essential Interviews a cura di Jonathan Cott, ma una registrazione conserva lo scambio riportato di seguito, in merito al pezzo con cui Dylan concluse il programma:

S.T.: Con cosa vogliamo chiudere... qual è il pezzo di chiusura?

B.D.: Un pezzo di chiusura... Vediamo, lasciami pensare. Oh, “Blowin’ in the Wind”. Posso cantarti quella.

S.T.: È un pezzo molto noto. Popolare, direi.

B.D.: Oddio, spero proprio di no.

S.T.: Intendo “popolare” in senso buono. Nel senso che sono in parecchi a cantarlo.

B.D.: Già.

Dopo una pausa di otto anni, la canzone tornò in scena due volte il 1° agosto 1971, nelle apparizioni pomeridiana e serale di Dylan al Concert for Bangladesh. E rientrò definitivamente nella sua scaletta nel gennaio 1974. A quel punto le preoccupazioni dei suoi fan si erano spostate dal Vietnam al Watergate e a Nixon, e “Blowin’ in the Wind” poté finalmente riprendere il suo posto come parte integrante delle sue esibizioni dal vivo. Io lo sentii eseguirla due volte nel 2016, nel mese di luglio a Boston e poi di nuovo a Clearwater, in Florida, in novembre, e altre due volte nel giugno 2017, e in ciascuna di queste occasioni fu uno dei due bis di chiusura, il suo ruolo fisso nelle scalette degli ultimi anni.

A oggi Dylan l’ha cantata in più di 1400 concerti, eseguendola in uno stile che non ha più nulla a che spartire con la versione acustica incisa a ventun anni. Le domande poste dal testo non hanno perso nulla della loro cogenza, ma non si possono né si potranno più associare ad alcun evento o circostanza storica precisa.

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