«Scusate, ma per partecipare adeguatamente al Mei è richiesta l'ubiquità»: così si scusa John Vignola, raggiungendo in ritardo Enrico De Angelis alla presentazione del documentario su Giovanna Marini e la sua Scuola Popolare di Musica di Testaccio. Una frase che sintetizza adeguatamente lo smarrimento di operatori e visitatori della fiera faentina in giro per capannoni e auditorium, sotterrati da decibel e colori, come sempre rigorosamente in contemporanea. La nuova isola uditiva felice del Palazzo delle Esposizioni, comprendente stand di liuteria, sezione world e Mei d'autore, non ha catalizzato le masse, per usare un eufemismo. Molto più agile da girare, viste le dimensioni contenutissime, ma anche poco frequentata. L'area fieristica di Viale Risorgimento vedeva molte meno presenze "discografiche" degli anni passati, in favore di mercatino dischi-libri-strumenti.
Da un lato i meriti del Mei sono noti a tutti: la bulimica politica del "fare sistema" che sottende alla fiera porta annualmente a Faenza chiunque abbia qualcosa da dire o da esibire riguardo alla musica e alle sue diramazioni. Il Mei è la vetrina di tutti, nessuno si sentirà mai dimenticato da Audiocoop; una stanza e un microfono saranno sempre lì per te, operatore, musicista, scrittore o giornalista che tu sia. È frastornante ed ingestibile per il pubblico, ma nella personalistica realtà italica è ancora dannatamente utile, a dodici anni dalla prima edizione.
Dall'altro, sembra che al Mei stia sbiadendo di anno in anno l'obiettivo che un evento dedicato agli "indipendenti" dovrebbe prefissarsi: quello di sperimentare. È particolarmente preoccupante soprattutto nell'attuale frangente economico e culturale: ce ne si accorge passeggiando tra gli stand e contando le etichette discografiche, sparute realtà aggrappate al loro scoglio, o constatando la defezione totale di realtà di promozione "extra-standard" rispetto ai consueti canali (zero siti web di distribuzione, ad esempio; se non fosse per un progetto pagato da Tim legato, guarda un po', alla telefonia, non si avrebbe traccia del settore). Un solo stampatore di cd, zero management, un solo fotografo senza stand che passeggia per la piazza distribuendo volantini a mano. Un pianto.
Al contrario, il massiccio dispiegamento di artisti stipati sui palchi dei capannoni, al ritmo di uno ogni quarto d'ora, è un tirare fuori i muscoli, piuttosto che giocar d'astuzia. E ha un cattivo odore la pioggia di premi che il Mei insiste nel distribuire: non perché i Dente o i Sick Tamburo non li meritino, ma perché vale la pena valutare meglio i numeri e prendere atto che non c'è molto da festeggiare.
Da un lato i meriti del Mei sono noti a tutti: la bulimica politica del "fare sistema" che sottende alla fiera porta annualmente a Faenza chiunque abbia qualcosa da dire o da esibire riguardo alla musica e alle sue diramazioni. Il Mei è la vetrina di tutti, nessuno si sentirà mai dimenticato da Audiocoop; una stanza e un microfono saranno sempre lì per te, operatore, musicista, scrittore o giornalista che tu sia. È frastornante ed ingestibile per il pubblico, ma nella personalistica realtà italica è ancora dannatamente utile, a dodici anni dalla prima edizione.
Dall'altro, sembra che al Mei stia sbiadendo di anno in anno l'obiettivo che un evento dedicato agli "indipendenti" dovrebbe prefissarsi: quello di sperimentare. È particolarmente preoccupante soprattutto nell'attuale frangente economico e culturale: ce ne si accorge passeggiando tra gli stand e contando le etichette discografiche, sparute realtà aggrappate al loro scoglio, o constatando la defezione totale di realtà di promozione "extra-standard" rispetto ai consueti canali (zero siti web di distribuzione, ad esempio; se non fosse per un progetto pagato da Tim legato, guarda un po', alla telefonia, non si avrebbe traccia del settore). Un solo stampatore di cd, zero management, un solo fotografo senza stand che passeggia per la piazza distribuendo volantini a mano. Un pianto.
Al contrario, il massiccio dispiegamento di artisti stipati sui palchi dei capannoni, al ritmo di uno ogni quarto d'ora, è un tirare fuori i muscoli, piuttosto che giocar d'astuzia. E ha un cattivo odore la pioggia di premi che il Mei insiste nel distribuire: non perché i Dente o i Sick Tamburo non li meritino, ma perché vale la pena valutare meglio i numeri e prendere atto che non c'è molto da festeggiare.