Matteo Silva e Ad Infinitum, alla (ri)scoperta dell'Amiata Records

Nel 1991 il disco Ad Infinitum lanciava il catalogo dell'Amiata Records, fondata dal suo autore Matteo Silva: sulle tracce di un piccolo capolavoro dimenticato

Matteo Silva - Amiata Records - Ad infinitum
Matteo Silva
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Intervista a Matteo Silva: l'esperienza dell'Amiata Records, il disco Ad Infinitum, il lavoro di ricerca e divulgazione sulle musiche del mondo...

La longevità e la capacità di trasmettere un messaggio che riesca a mantenere inalterate peculiarità quali la chiarezza, la persuasività, e l’eleganza sono fattori indispensabili per giudicare la grandezza di un disco, specie quando questo si avvicina al trentesimo anno di vita.

Necessario, un piccolo cappello introduttivo, che illustri quanto alcune musiche sperimentali – ambient, jazz, avantgarde, new age, eccetera – siano radicate nel sottobosco musicale italiano, generi dei quali alcuni illuminati musicisti hanno saputo offrire interpretazioni innovative e di accecante bellezza in dischi (perlopiù scoperti postumi alla loro pubblicazione) che negli ultimi due lustri hanno finalmente cominciato a raccogliere i meritati riconoscimenti e una distribuzione di livello mondiale. Partendo da Gigi Masin per arrivare a Lino Capra Vaccina, Franco Nanni, Roberto Musci, gli Aktuala, Raul Lovisoni, Francesco Messina, Paolo Modugno, Roberto Aglieri, Walter Maioli, Riccardo Sinigaglia e via così molti altri ancora.

Quel raffinato (e a volte spietato) strumento che è Discogs inoltre ha messo nelle condizioni di scandagliare a fondo questi lidi anche ai meno “addicted”, operazione che ha permesso una mappatura pressoché totale del “fenomeno italiano”, circoscrivendo il lavoro di questi "arieti" per poi trasferirlo nell’ormai rodata catena produttiva che sta ristampando gran parte di questi sconosciuti capolavori. Per onor di cronaca però, questa ricerca forsennata del “sacro graal” da ristampare, ha immesso sul mercato anche dischi dei quali francamente non se ne sentiva il bisogno.

Ad Infinitum di Matteo Silva è uno dei pochi album non ancora intercettati dai radar, un lavoro pubblicato nel 1991 dalla Amiata Records, etichetta fondata dallo stesso Matteo insieme a Marc Eagleton, e stampato su cd.

I brani, cinque, hanno lunghezze che vanno dagli otto ai quindici minuti, musica che fonda il suo essere sulla convergenza di differenti strati di suono che si ripetono e susseguono generando loop infiniti la cui sovrapposizione e le tenui e progressive variazioni tonali tengono incollato l’ascoltatore predisponendo la sua mente a melodie ipnotiche e inafferrabili.

Dall’iniziale "Continuum" – una perfetta intro sviluppata tenendo un drone in primo piano e lasciando affiorare man mano un pad corposo – si passa alle atmosfere acri di "Transaxel" e alle sue sottomarine esplorazioni. "Alea non alea" esce fuori dallo schema iniziale immettendo elementi percussivi e altre singole sonorità che vanno a spezzare la continuità stilistica iniziare per deliziarci con un soundscape molto evocativo. La successiva "Rasa" torna a far girare polvere di stelle con un suono vicino alle tonalità di un organo elettrico, concetto portato all’estremo nella conclusiva "Continuum ad infinitum".

Quel che ne risulta, è un destabilizzante flusso di vibrazioni nutrito da musiche etniche, riti sciamanici e dalla ricerca dello stato di trance. Un disco che si avvicina alle estetiche minimaliste di artisti come Charlemagne Palestine o Terry Riley, coniugato al pathos dell’ambient più sognante e rafforzato dall’utilizzo di sfumature world. Musica che sprigiona un calore avvolgente e che riesce a catturarti con la semplicità e la purezza del suono, una perla tutta da riscoprire.

Matteo Silva - Ad Infinitum - Amiata Records

«La mia musica non racconta né pretende di raccontare alcunché. Ogni pezzo vorrebbe piuttosto essere un’eco, una finestra, una piccola porta a cui si possa affacciarsi per qualche attimo sull’infinito in noi, accedendo ad una dimensione interiore, non concettuale. L’ascoltatore è perciò invitato a tralasciare ogni approccio di ascolto discorsivo propiziando in questo modo il sorgere della contemplazione.

Ad Infinitum è una composizione di musica elettronica in cinque parti. La caratteristica dominante di questi pezzi è la staticità nel movimento per lo più espressa, come suggeriscono i titoli di apertura e di coda, da un continuum sonoro. Questo continuum, simile al continuum mentale, permette all’ascoltatore-osservatore di dissolversi in esso e trovarsi così in una dimensione atemporale, di apertura totale.

Questi pezzi possono quindi esser considerati soggetto ed oggetto di meditazione oltre che dei paesaggi sonori. In quest’ultimo caso, possono essere usati “ad libitum” per installazioni ambientali dove la durata dei singoli processi acustici può variare dai pochi minuti di questa registrazione a ore, settimane, mesi o anni.

Per quel che riguarda la strumentazione, mi sono servito di un computer collegato a quattro moduli algoritmici, di un programma interattivo ed un sintetizzatore lineare. Mezzi semplici, oggi pressoché alla portata di tutti.

Se l’ascoltatore si dissolve nell’ascolto e rimane in questo stato di presenza, è sorta in lui la contemplazione non duale: tutto scompare, ad eccezione di un luccichio, una chiara e continua radianza della mente.
Matteo Silva, Miglieglia, 07/04/1991

Matteo Silva, Amiata Records
Matteo Silva

Oggi Matteo Silva è etnomusicologo, curatore di prestigiose collane musicali per alcuni colossi dell’editoria e produttore di un infinito numero di progetti musicali spalmati lungo il corso degli anni. Ho avuto il piacere di intervistarlo per approfondire alcuni aspetti del suo passato, del suo meraviglioso album e del suo lavoro.

Inizierei parlando dell’Amiata Records, etichetta discografica che hai fondato con Marc Eagleton. In che maniera siete venuti in contatto e quali furono i presupposti sui quali avete deciso di operare insieme? Inoltre mi piacerebbe sapere il motivo del nome scelto, una delle montagne del Centro Italia rimaste oggi ancora fortemente ancorate al passato, sostanzialmente integre e non deturpate dall’abuso edilizio e turistico.

«Beh sì, nel 1991 ho creato insieme a Marc l'Amiata Records. Mi ero trasferito da poco in campagna in Toscana, in Maremma, per l'appunto vicino al Monte Amiata. In quell'epoca frequentavo un maestro tibetano, che era stato per molti anni professore all'Orientale di Napoli e che viveva nei pressi di Arcidosso e lì, nel suo centro di meditazione, ho conosciuto Marc. In quell'epoca quella zona era molto cosmopolita, un po' per il centro di studi tibetano e un po' per vocazione del luogo. Avevo come vicino di casa Daniel Spoerri, un artista Fluxus svizzero, Michael Vetter, un musicista e artista visivo tedesco, in paese con gli abitanti del luogo, convivevano eccentrici scrittori inglesi, ereditiere americane, una curiosa coppia di ecologisti estremisti tedeschi, tibetologi e artisti francesi e italiani. Eravamo tutti attratti da quei luoghi, bellissimi e per molti di noi, ancora magici. Per questo abbiamo poi chiamato la nostra etichetta Amiata Records». 

In che maniera avveniva la selezione delle musiche da pubblicare? Quanto era intenso il lavoro di ricerca necessario ad alimentare il vostro progetto?

«Marc é un musicista come me e quindi il nostro approccio era soprattutto musicale. È nato tutto in modo molto spontaneo, naturale, direi. Anche l'etichetta. Io all'epoca lavoravo part-time per la Radio della Svizzera Italiana a Lugano e per le edizioni musicali Schott in Germania, che in quel periodo stavano ristrutturando una loro etichetta discografica di musica contemporanea, la Wergo. Alcune produzioni che avevo prodotto per Wergo rimasero così nel cassetto e fu così che, d'accordo con i musicisti, ne liberai un paio e le pubblicai con la nostra minuscola e neonata Amiata».

Durante i primi anni avete pubblicato artisti del calibro di Terry Riley e Steve Reich ma anche alcuni jazzisti come Riccardo Fassi, Paolo Fresu, Antonello Salis ed altri ancora, e un altro nome importante per le avanguardie come Roberto Laneri. È stato difficile ottenere i diritti per pubblicare i loro album?

«Mi interessavo da diversi anni al minimalismo e al movimento Fluxus. Per la radio avevo organizzato alcune rassegne in tal senso e così avevo avuto contatti diretti con molti artisti come La Monte Young, Terry Riley, Steve Reich e Philip Glass. Così sono nate delle amicizie e dei rapporti di stima reciproca che in alcuni casi si sono trasformati in dischi, in altri solo in grandi mangiate e bevute di vino buono. Naturalmente poi, stando in Italia, ci siamo interessati anche di artisti italiani compatibili con la nostra filosofia e così abbiamo conosciuto Roberto Laneri, Paolo Fresu, Riccardo Fassi, le Faraualla, Marino De Rosas, Antonio Infantino e tanti altri...».

Quali le tirature e i canali distributivi che utilizzavate? E qual era il mercato che vi supportava maggiormente?

«Le tirature iniziali erano – quasi sempre – di 3000 copie. I mercati che ci sostenevano maggiormente erano inizialmente quello francese e quello tedesco insieme a piccoli mercati come quello svizzero, austriaco e belga. Dopo qualche anno il maggior mercato é diventato quello americano ma lo è diventato semplicemente perché è un grande mercato e abbiamo avuto la fortuna di avere dei buoni distributori come Allegro e la Ryko. È stato tutto un processo di crescita organica, il nostro era per forza un mercato di nicchia ma nessun mercato di nicchia era comunque sufficiente per sostenere un'etichetta come la nostra. Mettendo insieme molti piccoli mercati di nicchia si creava però un mercato più ampio e così dopo qualche anno i nostri dischi venivano distribuiti in Argentina, in Brasile, in Sudafrica, in Turchia, in Grecia, in Spagna e Portogallo, in Corea e naturalmente in Giappone finché nei primi anni del 2000 abbiamo avuto distributori in 34 paesi e la cosa a quel punto ha cominciato a farsi complessa. E l'assurdità era che eravamo tutti in Italia ma quello Italiano non era un mercato economicamente rilevante per noi». 

Potresti descriverci il clima che si respirava in ambito artistico durante i primi anni novanta? Riuscivi a percepire la musica come qualcosa di vivo e in evoluzione? Chi erano i tuoi compagni musicali e quali i luoghi dove vi riunivate?

«Certo, la musica era ovunque tranne che sul telefonino, c'era il minimalismo, c'erano molti influssi extraeuropei, multietnici, c'era la musica elettronica nordica e c'era anche del jazz sperimentale interessante, che ne so, c'era Erykah Baduh, Steve Reich, c'erano i primi album di Aphex Twin, di Autechre e dei Boards of Canada ma c'erano ancora in giro il vecchio La Monte Young con le sue Purple rooms e Brian Eno con i suoi progetti ambient. Tutto sommato era un bel periodo, interessante per la musica colta e per la fruibilità di molta bella musica extraeuropea, meno interessante invece per la musica più commerciale. I miei compagni musicali in questo viaggio erano tutti gli artisti con cui lavoravo, poi c'era Marc e c'erano alcuni amici estimatori. I luoghi in cui ci trovavamo erano alcuni studi di registrazione in città come Firenze, Roma, Milano, Berlino, Londra, Parigi o Mumbai ma era soprattutto a Villa Gaia, in campagna da noi, che ci incontravamo e progettavamo insieme. Abbiamo passato anche dei bellissimi momenti quando registravamo in spazi acusticamente unici come le Abbazie di Le Thoronet, di Senanque o a Sant'Antimo in Toscana. Ci sono poi artisti che hanno abitato per mesi con noi mentre sviluppavamo tutti insieme un progetto. Era un bel modo di produrre quello: in fondo, un bel lusso...». 

Quali sono stati gli ascolti e gli studi che ti hanno formato e se esiste quale il disco che più di tutti ti ha spinto a cimentarti nella produzione musicale?

«Beh, ho studiato clarinetto e composizione sperimentale oltre a pianoforte complementare al Conservatorio G. Verdi di Milano. Ho frequentato ambienti classici e del jazz e mi sono cimentato con molte produzioni contemporanee e "tradizionali etniche" in giro per il mondo. Ho studiato etnomusicologia e filosofia. Più che il disco è la musica a interessarmi. La musica come messaggio ed energia. La registrazione e fissazione su disco, rete o nastro è certamente stata una buona cosa, anche se nessun tipo di fissazione e riproduzione potrà mai sostituire la magia della musica dal vivo. Non credo poi che ci sia stato un particolare disco che mi ha indotto a fare il produttore musicale, piuttosto erano molti i dischi, molti i concerti e infine probabilmente anche o soprattutto il destino». 

L’Amiata Records esordiva proprio con un tuo lavoro, Ad Infinitum, nel 1991. Un album lisergico, ipnotico evocativo e incredibilmente potente che oggi – dopo ventisette anni – mantiene inalterate tutte le sue qualità e che con il senno di poi ha anticipato di gran lunga molta ambient music prodotta negli anni successivi, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Mi piacerebbe ci raccontassi come sei arrivato a comporre un album simile, qual era il concept alla base, quale la strumentazione e le tecniche utilizzate, i luoghi in cui fu registrato e, se ce ne sono, degli aneddoti che non sono mai stati narrati.


«Ad Infinitum é nato fra il mese di settembre del 1990 e quello di aprile del 1991. Ero in Svizzera in una piccola casetta sul lago di Lugano. Era un periodo in cui lavoravo con progetti ambientali minimalisti e praticavo alcune forme di trance e meditazione. Avevo anche un maestro tibetano, nel monastero di Rikon, vicino a Winterthur, da cui mi recavo una volta al mese. In quel periodo collaboravo anche con la Radio della Svizzera Italiana curando una trasmissione settimanale di musiche "alternative", non solo elettroniche, che si chiamava Mandala. Per realizzare l'album ho utilizzato un Oberheim M12, una Roland D50 e una Yamaha DX7 interfacciati con Max in una configurazione autogenerante. Da lì a poco mi sarei trasferito in Toscana».

La grafica minimalista del cd è stata realizzata dalla visual artist Eva Kaganas. Avete discusso insieme il progetto grafico? Trovo sia assolutamente aderente al contenuto musicale, cosa mai semplice da ottenere.

«Sì con Eva abbiamo discusso del progetto insieme, lei lo ha compreso subito e realizzato graficamente in modo eccellente». 

Ti è mai capitato di trovarti ad ascoltare dischi ambient prodotti in seguito al tuo album e pensare che in qualche maniera potessero essersi ispirati al tuo lavoro?

«Qualche volta, ma é una sensazione piacevole, come trovarsi in compagnia di amici che parlano la stessa lingua...».

Parallelamente hai portato avanti il tuo lavoro come etnomusicologo stringendo una forte collaborazione con il gruppo RCS per il quale hai curato la collana Musica dal mondo ed anche con la Fabbri Editore per quanto concerne i volumi Enciclopedia delle musiche del mondo. Trovo molto importante che alcuni editori mainstream mostrino una certa sensibilità verso l’arte e la musica, ma a mio modo di vedere è stato fatto troppo poco rispetto alla potenzialità di forme artistiche più avanguardistiche. Secondo te la diffusione di cultura “meno ortodossa” rimarrà sempre appannaggio di piccole realtà sotterranee? Quali sono i limiti di diffusione più ad ampio raggio di sottoculture artistiche e musicali?

«Quando ho curato l'Enciclopedia delle musiche del mondo per la Fabbri non era mai stato fatto nulla del genere prima in Italia. Alla Fabbri e al gruppo editoriale RCS va riconosciuto questo merito, con tutti i limiti che comunque aveva il progetto che era destinato all'edicola. È stato comunque un progetto con più di 70 cd, ognuno con con un libretto esplicativo allegato che davano per la prima volta in Italia un'idea piuttosto precisa della grande varietà e spesso grande qualità di molte musiche tradizionali del nostro pianeta. In questo lavoro ho fra l'altro avuto carta bianca, non ho avuto imposizioni né pressioni di alcun genere. Semplicemente dovevamo riuscire a dare un'idea e un assaggio delle maggiori tradizioni musicali del mondo, dalle tarantelle della Basilicata alle musiche trance del Laos, dai gamelan giavanesi al tropicalismo carioca, dal tango argentino ai canti Inouit dell'estremo nord. È stato un bel lavoro ed é un peccato che non sia stato poi sviluppato oltre negli anni seguenti».

«Ho fatto anche qualcosa del genere per il gruppo Espresso La Repubblica ma lì già c'era più pressione, i dischi dovevano vendere molto e il criterio di selezione era diverso anche se, devo dire, ho sempre mantenuto alta la barra della qualità. Credo che tutte queste operazioni abbiano alla fin fine influito socialmente e culturalmente nel nostro paese. Con queste operazioni sono stati venduti in Italia centinaia di migliaia di dischi di musiche di paesi a noi lontani, di musiche africane, indiane, brasiliane, cubane, di tarantelle e di musica celtica e questo ha certamente influito ad allargare gli orizzonti culturali di molti anche se, certo, sono state centinaia di miglia di gocce nel mare. Credo quindi siano state delle ottime operazioni per questo, far conoscere la musica degli altri, degli immigrati, dei diversi, delle popolazioni a noi lontane e spesso sconosciute».

«Va detto che poi abbiamo fatto anche operazioni più circoscritte, come l'enciclopedia delle musiche della Sardegna che ha avuto un grandissimo successo in Sardegna dove sono state vendute più di 15.000 copie di ogni volume – mentre in Continente le copie vendute sono rimaste sulle 3000... I sardi sono un popolo eccezionale, hanno una grande consapevolezza culturale e un grande orgoglio per le proprie tradizioni».

Devo dire che il mio lavoro come etnomusicologo mi ha dato molte soddisfazioni, forse anche più di quelle avute come compositore. A chi se ne stava abbarbicato nelle proprie torri postseriali io ho voluto contrapporre altre musiche contemporanee cercando di mettere in luce quando fosse ridicolo ogni eurocentrismo, quanto fosse ormai decadente e obsoleto l'Occidente postweberniano che si ostinava ad autoincensarsi con linguaggi vuoti quanto incomprensibili e soprattutto per la perdita del Sacro, del Suono che unisce e che eleva. Per questo il mio interesse per le musiche altre, per il sacro della musica in ogni parte del mondo, per il canto dello sciamano, per il brontolio del monaco, per le laudi Gregoriane, per il Raag Bhairavi, per le nenie dei pigmei e la trance dei gnawa. È stato tutto molto naturale. Tutta la mia ricerca musicale é stata in fondo sempre solo la ricerca del Sacro e della bellezza in musica. Della poesia, del Suono magico. Per questo ho fatto anche esperimenti come unire il canto gregoriano con i raga indiani, ambedue tradizioni modali, o come unire antico e contemporaneo. Naturalmente poi il tutto ha un senso se viene fatto con passione e cognizione di causa. Ci sono poi oggi artisti che ai propri concerti "elitari" di musica elettronica suonano davanti a 8/10mila persone estasiate, fra cui molti cultori della loro musica. È una nicchia certo, ma bella e nemmeno così piccola». 

Segui qualcosa delle produzioni elettroniche odierne? Hai dei musicisti o dei dischi che ti senti di consigliare?

«Secondo me ci sono molti musicisti interessanti in giro oggi, Aphex Twin, Autechre, i Boards of Canada, Alva Noto, Nils Frahm, Ólafur Arnalds, Marconi Union ...ma anche come Beatrice Dillon, Richard Devine e per certi versi anche Caterina Barbieri. Ho sentito recentemente Song for a Chance di Andy Stott e mi é parso un lavoro molto bello e raffinato... Ma sicuramente ci sono molti ragazzi a me sconosciuti che  producono buona musica. Direi che nel panorama musicale attuale la musica elettronica é senz'altro la nicchia più dinamica e interessante». 

Ti sei più cimentato nella produzione di brani elettronici? Come suonerebbe oggi un tuo disco?

«Soave come il canto della battigia su una spiaggia tropicale. Sincero come questo vino naturale! Salute!».

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