L’età della trap?

Sfera Ebbasta e la trap per raccontare la "classe disagiata" e l'Italia di oggi. Intervista a Ivan Carozzi intorno a L'età della tigre (il Saggiatore)

Sfera Ebbasta - l'età della tigre
Sfera Ebbasta
Articolo
pop

Dal 5 settembre è in libreria, per i tipi del Saggiatore, L’età della tigre, il nuovo libro – personalissimo e bellissimo – di Ivan Carozzi, giornalista, classe 1972, scrittore, autore televisivo, milanese di adozione, dotato di una sensibilità e uno sguardo peculiari sulle cose del mondo. Anche in questo caso, Carozzi non ha mancato di raccontarsi per raccontare il proprio – il nostro – tempo. Stavolta, a partire dalla ossessione nazionale per la trap.

Non potevamo che fargli qualche domanda. Tra Sfera Ebbasta e Walter Benjamin.

Ivan Carozzi - Età della tigre

Ho letto L’età della tigre tutto d’un fiato, dal pdf, facendo un sacco di sottolineature e prendendo un sacco di appunti, nel buio surreale di un volo lungo dodici ore, in uno stato che non saprei come definire se non come iniziatico, poco dopo avere saputo che un caro amico era morto, mentre in parallelo scrivevo una cosa su Tommaso Labranca, avendo ossessivamente in testa Claustro di Burial. Come sai, la trap mi interessa molto, perché anche io cerco di capirla, perché anche io sento, tra le altre cose, quella distanza – semplificando molto – generazionale con cui il libro si apre e si chiude.

E sono stato molto contento di capire subito che L'età della tigre non è un libro sulla trap, come in qualche modo ci era stato venduto. È un’autobiografia, è un libro su Milano, un libro su quello che viene definito “lavoro cognitivo” (e che è poi la famosa “classe disagiata”), un libro sullo spirito del tempo (che è anche il tempo della trap). La trap lo puntella ossessiva come le parole oscure che stregano il ragazzo de Le sorelle di Joyce o quelle che tormentano La signorina Else di Schnitzler.

Provare a capire la trap oggi è provare a capire l’oggi?

«Ti ringrazio per queste parole. Sì, la trap è un punto di accesso. Provare a capirla, ascoltarla, seguirne le tracce, è un modo per scivolare dentro la carne e il tessuto del nostro tempo. Permette di comprendere e sentire un sacco di cose che sono vive in questo momento».

Quando ho iniziato a maneggiare “trap”, nel 2011, la trap erano cose come "FYTS" di Evian Christ, inglese, giovanissimo, ora un po’ fuori dai radar. Poi è arrivata "Harlem Shake", che era un’altra trap ancora.

È affascinante vedere come uno stesso nome vada a coprire oggetti o fenomeni diversissimi da quelli che designava in origine (la trap di ieri era ambientale e strumentale, quella di oggi è giocattolosa e biascicata; il disco era il 78 giri mentre oggi è un elenco su Spotify). Così come è affascinante il contrario, vedere come una stessa cosa resti tutto sommato uguale a se stessa ma cambi nome nel tempo (che è un po’ quello che si dice sulla trap rispetto al rap).

«Fosse stato per l’autore, in copertina ci sarebbe una foto della nonna o quella in bianco e nero di uno specchio impolverato, a cui si accenna a un certo punto nel testo, dove è scritta la parola “SALARIO”»

Volendo – dovendo, non potendo che – usare delle categorie, nella mia testa ho incasellato il libro dentro l’autofiction. Fin dal disclaimer inserito sul retro («Fosse stato per l’autore, in copertina ci sarebbe una foto della nonna o quella in bianco e nero di uno specchio impolverato, a cui si accenna a un certo punto nel testo, dove è scritta la parola “SALARIO”»). Ha senso per te questa etichetta, “autofiction”? Hanno senso per te le etichette?

«Le etichette sono strumenti, hanno un senso perché consentono di mettere ordine tra i fenomeni. Hanno un senso e una funzione. Ben vengano. Poi è chiaro che nel piano profondo del reale, come nello scambio elettrico tra le parole, tutto si muove e si mescola ogni istante. Forse nell’espressione “saggio autobiografico”, con la quale riadatto l’inglese “personal essay”, mi riconosco di più che non nel termine “autofiction”». 

Forse non si dovrebbe chiederlo. Ma: episodi del libro come quello dell’orologiaio – una specie di parabola sulla comprensione e l’illusione della comprensione – sono “veri”, sono “accaduti”?

«Certo. Tutto vero. Si tratta di un signore che mi ha incuriosito, mentre mi aggiravo per un mercato, al quale poi mi sono avvicinato per presentarmi e scambiare due parole. Ci siamo conosciuti e poi incontrati di nuovo. In quel secondo appuntamento la conversazione è partita da Sfera Ebbasta ed è finita altrove. Mi ha raccontato un po’ della sua vita».  

Il fondatore di quella che oggi si definisce semiotica della cultura, Jurij Lotman, parla delle culture come di semiosfere – biosfere, ecologie del senso – con il loro centro, le loro periferie, i loro limiti. Ai margini succedono le cose interessanti: parliamo di “fenomeni di confine”, di “ibridazioni”, di “traduzioni”, perché il nuovo per definizione viene “da fuori”. In origine, un gruppo di pittori – che possedeva uno sguardo altro, nuovo sulle cose del mondo – ritenuti da strapazzo e definiti “impressionisti” veniva buttato fuori dalle accademie di pittura ed era costretto a esporre al “salone dei rifiutati”. Sappiamo poi com’è andata. Forse “l’altro” è sempre un mostro finché non riusciamo a escogitare le categorie che ci mancano per comprenderlo. “L’altro” ti costringe a creare un buco e a riempirlo. I margini – spaziali, temporali, culturali – ti interessano da sempre. Ti senti ancora un «sommozzatore di subculture», e un «turista della tarda modernità», come dicevi qualche anno fa?

«I margini m’interessano, sì, mi piace visitarli o sprofondarci come un sub, ma devo dirti che sono pure molto insofferente nei riguardi di un certo feticismo della marginalità. Un esempio: anni fa andai a vedermi una mostra alla Triennale di Milano; si trattava di The Ballad of Sexual Dependency, ovvero uno slideshow di alcune delle foto scattate nel corso della sua vita dalla celebre fotografa Nan Goldin. Quel giorno ho provato un senso d’irritazione fortissimo, non tanto verso le foto e il lavoro in sé di Nan Goldin, ma perché in quel momento, dentro l’edificio della Triennale (la cattedrale, peraltro magnifica, della borghesia colta cittadina), ho realizzato quanto l’estetica tossica e violentemente marginale di Nan Goldin avesse ispirato buona parte del glamour, della comunicazione e della pubblicità degli ultimi venti e passa anni, diventando perfettamente fruibile in un contesto intensamente milanese e snob come la Triennale, cioè un luogo che si colloca all’esatto opposto dei soggetti ritratti da Nan Goldin e dall’ambiente culturale e dalla bohème proletaria in cui quel linguaggio è stato dapprima apprezzato e interpretato».

«Sì, lo so, forse sono vittima di schemi e sensibilità un po’ vetero. Ma non credo. O meglio: sono convinto che se un uomo o una donna tra quelli fotografati da Nan Goldin uscisse da una foto, probabilmente verrebbe squadrato come un essere infetto dall’avventore medio di quegli spazi. Ergo non mi va di partecipare a certi riti e finisco per rompermi i coglioni anche dell’incolpevole Nan Goldin e della cosiddetta “marginalità”».

Quanto è importante la memoria? Il libro è intriso di ricordi. Una delle parti dalla bellezza più luminosa è quella su tuo padre scultore (la polvere, il pulviscolo, il gabinetto mezzo rotto). 

«“La memoria, come l’energia sessuale, non si ferma mai”. È una frase di Annie Ernaux. Quanto è maledettamente potente e reale questa frase… Prova a pensare alla memoria come a quella forza che, convenzionalmente, spinge il nostro essere indietro; e prova a pensare all’energia sessuale come a quella forza che, convenzionalmente, spinge il mondo in avanti. Quindi pensa all’individuo come a quel soggetto che è tirato da una parte e dall’altra da questo doppio giogo di forze immanenti. Un po’ come l’angelo di Walter Benjamin».

«Scrivere, per me, significa piombare nel passato, lasciarmi prendere da questa forza di gravità che mi risospinge al mio interno e dentro il tempo trascorso».

«Scrivere, per me, significa piombare nel passato, lasciarmi prendere da questa forza di gravità che mi risospinge al mio interno e dentro il tempo trascorso, mentre il movimento della parola che si compone sullo schermo, e spinge verso un lato, forse trova il suo motore nell’energia sessuale, che nel suo pervadere tutto si camuffa perfino in scrittura».

Tu hai studiato filosofia all’università?

«Sì, ma senza grande concentrazione, diciamo. Mi sono laureato a Pisa con una brutta tesi su Philip Dick e Jean Baudrillard. Tornassi indietro cercherei di essere uno studente migliore».

Come hai iniziato a scrivere?

«Ho sempre adorato scrivere. Mi piaceva tantissimo scrivere i temi a scuola, nel silenzio dell’aula o a casa. Scrivevo cose un po’ folli e involute, insomma velleitarie, e forse per questa ragione non ho mai trovato nessuno tra i miei insegnanti che m’incoraggiasse a coltivare la scrittura, a fare meglio ciò che, evidentemente, m’interessava e corrispondeva. Al contrario, ho sempre incontrato insegnanti molto sordi e castranti. Ho un ricordo pessimo della scuola e della quasi totalità degli insegnanti. Con una certa pigrizia e discontinuità ho iniziato di nuovo a scrivere da adulto, ai tempi dell’università, per recuperare il filo di questa cosa che mi piaceva tanto e che, diventano grande, mi sembrava l’unica in grado di farmi esprimere e vivere».  

Tornando alla trap, leggendo il libro sembra che tu “stia dalla parte” di Ghali e BabySide, piuttosto che di Sfera. I “buoni” e gli “sconfitti” contro i “(cinici) vincitori”. 

«Sì, è così, anche se non direi che Ghali è uno sconfitto. Diciamo che fino a oggi ha vissuto il successo con grande eleganza, senza mostrarsi troppo, senza parlare troppo, conservando un certo mistero intorno alla sua persona. Come se fosse una silhouette, più che un individuo reale. Di Sfera non ho una grande opinione». 

«Di Sfera non ho una grande opinione».

Young Signorino mette in esergo nel suo ultimo video ("Burrocacao rosa") Mark Fisher. Riusciremo a sdoganare e/o intellettualizzare – il che è lo stesso – anche il reggaeton?

«A me fa piacere che il pensiero di Mark Fisher circoli, ma indubbiamente sta diventando un po’ un’etichetta. Vabbé, è nella normalità dei tempi che stiamo vivendo e questa attitudine e compulsione a trasformare un autore, un pensiero o l’opera di un artista in etichetta, è un po’ un lascito della cultura hipster. C’è un po’ questa tendenza, in alcuni personaggi pop, ad ammantarsi di theory per creare interesse intorno alla propria persona e radicarsi all’interno di nicchie di opinione, numericamente modeste ma strategiche. Pensa a Sasha Grey o Valentina Nappi». 

Posso chiederti di stilarmi una tua mini-top, diciamo una top 5 dei tuoi pezzi preferiti della trap italiana? Sto dando per scontato che tu ce li abbia, dei pezzi preferiti di trap italiana…

«Non sono esattamente un fan della trap… Sono un autore che in qualche modo ha usato la trap per scrivere un libro e raccontare perfino i fatti propri».

«Non sono esattamente un fan della trap… Sono un autore che in qualche modo ha usato la trap per scrivere un libro e raccontare perfino i fatti propri».

«Preferisco dirti i pezzi che ho ascoltato negli ultimi tempi e che, bene o male, mi hanno molto conquistato: “Woody the Woopecker” di Taxi B; “Scacciacani” di Ketama126 e Massimo Pericolo; “ABC” di Rosa Chemical; “Marlboro morbide” di Barracano; “Jeans strappati” di Ketama 126; “Long Neck” di Taxi B con Rosa Chemical».

Che musica ascoltavi durante la preparazione del libro e, poi, durante la sua stesura vera e propria?

«Quando scrivo preferisco il silenzio o al limite compilation di drone o study music. Però, non so per quale ragione, mentre scrivevo pensavo moltissimo al rock progressivo, senza poi effettivamente ascoltarlo. Però ci pensavo e ripensavo, e infatti c’è un breve passaggio nel libro dedicato al prog rock. Il rock progressivo è una forma espressiva in qualche modo distintiva di un’altra generazione, cioè i baby boomer. È la musica suonata da ragazzi dei ceti medi-popolari, in possesso di qualità tecniche eccellenti, magari maturate studiando in un conservatorio. Perciò documenta l’esistenza di una grande massa di giovani non ricchi che hanno potuto dedicarsi allo studio di uno strumento con grande dispendio di tempo».

«La trap, a mio avviso, è la musica dell’apnea e dell’imprigionamento nel presente e nell’immanenza della condizione sociale».

«Inoltre il rock progressivo è una musica che declina in evasione l’istanza della ribellione, elevando la favola e lo slancio fantastico al suo grado barocco, ampolloso e ipertecnico, mentre la trap, al contrario e a mio avviso, è la musica dell’apnea e dell’imprigionamento nel presente e nell’immanenza della condizione sociale». 

Che cos’è quella cosa “tecnica” che volevi chiedermi sulla trap?

«Allora, in sempre più produzioni trap si sentono in background versi e urletti effettati, delle cose tipo “bruaahhh”, “yahhhh”. Mi fanno letteralmente impazzire. È una forma di punteggiatura che rende il pezzo più ricco, folle, selvaggio. Un esempio molto nitido, anche se non si tratta di un brano trap, lo trovi in “Sabbie d’oro” di Massimo Pericolo, tra 00:34 e 00:36 secondi. Tu sai come si chiamano in gergo questi versi? Con quale nome tecnico vengono salvati nei progetti audio? E dal punto di vista semiotico, tu come li inquadreresti?».

Confesso che non so se questa cosa abbia un nome tecnico, o se i rapper o i trapper chiamino questa cosa in un modo specifico. Da una parte, questi versi mi sembrano l’ennesimo segnale del lento e progressivo processo di informalizzazione dei testi della musica, del fatto cioè che chi compone i testi delle canzoni scrive sempre più come parla e sempre meno come se stesse scrivendo (anni fa avevo letto un libro di Giuseppe Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, che parlava proprio di questo). Per un altro verso, mi sembrano la riproposizione dello yo classico intercalare del rap. Sono degli attacchi, degli stacchi, danno una cadenza, sono – come dici tu – una punteggiatura del flow.

E in questo senso, semioticamente, si potrebbe parlare di qualcosa di simile ai segnali discorsivi o marcatori di discorso della linguistica (sono le cose che studia mia moglie). Parole o espressioni come ehm, boh, allora, quindi, cioè che sembrano vuote di senso e invece sono fondamentali per strutturare il discorso, dirsi che ci si sta capendo. Volendo, uno può fare un discorso, a qualcuno che sa di che si sta parlando, usando solo parole del genere. E del resto Young Signorino ha fatto esattamente in questo modo, usando quasi soltanto lallazioni, sbuffi, grugniti, versacci, in “Mmh ha ha ha/Alfabeto”. Per un altro verso ancora, questi versi hanno anche una funzione coloristica, da effetto vero e proprio. Un po’ come l’autotune, per cui l’idea è che la voce sia uno strumento come gli altri.  

Stai guardando X-Factor?

«Confesso di non guardare X-Factor, tuttavia un sacco di persone mi hanno riferito che Sfera Ebbasta è il più fresco, capace e simpatico nella nuova giuria. Ogni volta che sento questo giudizio, mi sento un po’ morire, perché nel libro che ho scritto non parlo affatto bene di Sfera e mi viene il dubbio di essermi sbagliato e di non avere capito fino in fondo la natura del personaggio, che indubbiamente sarà pure poliedrico e versatile, figuriamoci. Però mi fanno molto ridere i post a proposito di Sfera Ebbasta scritti da Buono Pettinari, alias del fumettista Tuono Pettinato. Praticamente sono tutte storielle inventate che Tuono ha scritto a partire dal fatto che Sfera, evidentemente, è un po’ limitato nelle espressioni e alla fine finisce sempre per chiosare con “Hai spakkato!”. Esempio: Sfera entra in un bar, chiede un caffè, sorseggia il caffè, dopodiché si sente in dovere di dire al barista “Hai spakkato!”. Ecco, in questo personaggio dal linguaggio modulare, sempre identico a se stesso, bidimensionale eppure perennemente energetico e alimentato dal dovere di performare, rivedo qualcosa dello Sfera Ebbasta da me raccontato in L’età della tigre».   

 

Se hai letto questo articolo, ti potrebbero interessare anche

pop

Una riflessione sulla vita di Quincy Jones, scomparso a 91 anni

pop

Che cosa non perdere (e qualche sorpresa) a C2C 2024, che inizia il 31 ottobre

pop

Fra jazz e pop, un'intervista con la musicista di base a Londra