Forse il segreto, ammesso che segreto sia, era già in queste illuminanti parole che si ricavano da un bel testo di Jacopo Conti di diversi anni fa: Lucio Battisti è stato un cantautore che, all’ascolto, «suona come una band».
Dunque, come una band più o meno collocabile tra l’estremo scorcio dei mitizzati anni Sessanta, e la prima metà abbondante degli altrettanto e assai diversamente mitizzati anni Settanta. Che significava, in quattro parole, ricercare, tentare vie nuove, usare polpa melodica filante e sostanza armonica applicata alle canzoni in maniera inedita, trovare l’equilibrio tra tintinnii acustici e sferze elettriche. Con un certo condimento di primordiale elettronica, anche, agli sgoccioli dell'ultimo periodo storico citato.
L’ha messo bene in chiaro il musicologo Gianfranco Salvatore con gran sbigottimento degli addetti ai lavori (che hanno santificato ex post ogni uscita “prog” italiana, una sorta di canone sacro blindato che ha suo malgrado innescato stirpi intere di pedissequi imitatori), quando ha dedicato un saggio intero ad Anima latina, considerato tout court, e a prescindere dal fatto che la critica rock se ne fosse accorta, «il capolavoro del progressive rock italiano». Ovviamente c’era del vero abbondante, in quanto andava a dimostrare Salvatore.
Qui si apre però un abisso, il “dopo” Anima latina. Certo, lì già Battisti aveva fatto la scelta di far naufragare la sua voce insieme brutta e bellissima, morbidamente soul, in un mare strumentale cogente e caotico, infittito di richiami “etnici” e no, e l’effetto era strepitoso, e ancora lo è al riascolto. Anche se non si può fare strumming con la chitarra sulla spiaggia con quelle canzoni, che non hanno esche giovanilistiche, né spargono colonie di feromoni.
Poi arriva il post Mogol, e comincia davvero “l’altro” Battisti.
Due bei testi vanno ad aggiungersi, ora, a ricostruire l’accidentata vicenda biografica ed artistica, poetica, estetica che marca gli anni di Battisti senza la spalla essenziale del paroliere più inventivo della Penisola, ma con una nuova, sfidante libertà da assaporare e il senso di un voluto salto nel vuoto a caccia di se stesso.
Che comincia con una data secca, 1982, l’anno in cui esce E già.
Lucio Battisti / Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale (Compagnia editoriale Aliberti) di Donato Zoppo – che a Battisti ha già dedicato diversi lavori – ruota appunto tutto intorno al primo disco che prende le distanze da Mogol.
Un disco scomodo, nella storia delle discografie, perché stretto tra il prodigio continuamente rinnovato dei primi lp e la stagione disseccata, algida e spesso splendida dei lavori elettronici dei “dischi bianchi” finali.
In realtà il disco «imperfetto, claudicante, sghembo», per usare le parole di Franco Zanetti nella prefazione, assomma diversi punti interessanti: a partire dal fatto che i testi, lontani anni luce dalla misteriosa scorrevolezza di Mogol, e forse neppure opera della moglie di Battisti (nom de plume Velezia) come dichiarato, ma di Battisti stesso, per la prima volta sono pura – ancorché storta –autobiografia, all’indomani di Una giornata uggiosa, tra rimbalzi geografici nel triangolo, Roma-Londra-Rimini.
C’è poi un’altra novità essenziale che ci porta dritta al Battisti finale: dalle pagine di Zoppo sbalza fuori il Battisti musicista che va “a lezione” di elettronica e tastiere da Dario Massari, curioso, entusiasta e interessato.
Ci sarà poi un altro “tuffo”, quello finale: il sodalizio con Pasquale Panella, rovescio esatto di Mogol nella gestione delle parole: a parlarcene nel complesso del percorso che dal 1986 di Don Giovanni porta al conclusivo Hegel del 1994 è Andrea Podestà, già autore di notevoli lavori su De André e De Gregori, in Battisti, l’altro (Squilibri).
Podestà è critico assai attento alla linguistica, e la sua cassetta degli attrezzi concettuale è quanto di più indicato per lanciarsi in una decrittazione del lavoro di Panella (mai definitiva: è il bello di testi volutamente costruiti con un margine di ambiguità) che mette in conto Palazzeschi e Fortini, Bernard Shaw e Pier Paolo Pasolini.
Al cuore c’è quel pensiero voluto: «togliere le canzoni di Battisti dai falò, dai piano bar, dalle gite. Il passato di Battisti è trivializzato da questa roba».
Dunque, un Battisti che sfonda con Panella e l’elettronica i limiti della “forma-canzone”, si avventura in un territorio ostico, possibile ma pericoloso, e che infine fa con la voce il medesimo sacrificio, mutatis mutandis, che aveva fatto Miles Davis con il suono della sua tromba negli anni Settanta.
Miles approda dal “suo” suono siderale e apollineo all’abbaiare ritmico dell'ottone filtrato con il wha wha, Lucio via via sembra scorporare la sua voce dalle pulsioni più black e romantiche per diventare un’algida e distaccata voce raccontante, distante dalla “intronata routine del cantar leggero”, in perfetto pendant con l’essenzialità iconica delle copertine.
Gran libro, e scritto con una lingua tanto attenta e ricca quanto chiara nel seguire vicende che sono tutt’altro che limpide. CD incluso con quattordici coraggiose (e a volte curiosamente “battiatiane”) riletture delle quaranta canzoni di Panella-Battisti. Ne sono protagonisti Gabriele Graziani, frontman degli Equ, e le ragnatele di suono elettronico del musicista e direttore d’orchestra Marco Sabiu. Anche ascoltabili con QR code.