La restaurazione a Sanremo

Perché l'edizione 2023 del Festival ha rinunciato al nuovo dopo anni di scelte coraggiose? Spoiler: c'entrano lo streaming e TikTok

Sanremo 2023 restaurazione
I Coma cose su RaiUno (foto dal profilo FB dei Coma Cosa)
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L’altra notte verso l’una – praticamente prime time al Festival di Sanremo 2023 – ho realizzato improvvisamente una cosa.

Stavo facendo una delle tante interviste in radio che capita di fare durante la settimana del festival, quanto tutti i media italiani – grandi e piccoli, in uno spettro che va dalla Rai a Radio Valle Belbo – parlano solo di Sanremo e hanno disperato bisogno di contenuti freschi. 

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– Leggi anche: Le pagelle di Sanremo 2023 (le canzoni della seconda serata)

Mi hanno chiesto la mia personale classifica «se fossi tu il direttore artistico», e mi sono bloccato. Ci ho riflettuto, ho detto che per me potevano classificarsi tutte dalla quinta posizione in giù e me la sono cavata – come spesso si fa a Sanremo – con una boutade, e avanti così. Tanto tutti sanno che, da domenica sera, nessuno ne parlerà più e le canzoni continueranno la loro vita indipendentemente dal circo tritacarne in cui le abbiamo ascoltate per la prima volta.

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Non avevo però mai risposto così negli scorsi anni, da quella che ormai molti chiamano la “rinascita” di Sanremo dopo il buio degli anni Zero – gli anni oscuri dei Paolo Meneguzzi, dei Giò di Tonno, dei Sonohra; anni in cui uno come Renga poteva addirittura sembrare fresco (forse sto esagerando ma ci siamo capiti). 

Nel 2019 la sala stampa si era bloccata nello stupore quando all’una di notte – dopo un’infilata di Tatangelo e Nigiotti che avrebbe steso un bue – era partita “Soldi” di Mahmood. Nella stessa edizione “Rolls Royce” avrebbe lanciato l’ex trap-boy Achille Lauro nel mainstream, ed era chiara da subito la portata di quell’evento di cui eravamo testimoni.

Nel 2020 e 2021 c’erano anche cose come Alberto Urso, ma qualcosa si muoveva sempre di più in superficie: Pinguini Tattici Nucleari, Elodie, Rancore, Coma_cose, Extraliscio, Ghemon, La Rappresentante di Lista, Lo Stato Sociale, Madame, Willie Peyote… Persino Orietta Berti (e Alberto Urso!) si erano sentiti in dovere di infilare un trap beat nel loro altrimenti melodico arrangiamento.

Nel 2022 “Brividi” di Blanco e Mahmood, chiaramente destinata a grandi cose (come è stato), si era consacrata come classico fin dalla prima performance.

– Leggi anche: Brividi a Sanremo 2022

Che l’edizione 2023 fosse moscia a livello di canzoni e che mancasse un brano forte era abbastanza chiaro già dai preascolti. Nel pieno della settimana di Sanremo, e dopo qualche ascolto ripetuto, si è però chiarito come rispetto agli scorsi anni manchi anche – quasi del tutto – quell’attenzione al nuovo musicale alla quale le gestioni late Baglioni / early Amadeus ci avevano abituati.

Nel pieno della settimana di Sanremo, e dopo qualche ascolto ripetuto, si è chiarito come rispetto agli scorsi anni manchi quasi del tutto quell’attenzione al nuovo musicale alla quale le gestioni late Baglioni / early Amadeus ci avevano abituati.

In effetti, la quota “nuova” di questo 2023 non è poi tanto nuova. Non mi riferisco a Sanremo Giovani, verso cui nutro la stessa aspettativa che nutrirei per la nuova fiction Rai con Elena Sofia Ricci, ma a quello che viene veramente suonato sugli smartphone di milioni di adolescenti, e a quanto propone (o dovrebbe proporre) almeno un minimo scarto rispetto al mainstream più confortevole.

Se prima questa parte del pop italiano arrivava al Festival da outsider (i Subsonica, i Perturbazione, gli Afterhours…), gli ultimi anni ci avevano abituati a un approccio nuovo. Per certi versi a una normalizzazione di presenze che fino a cinque anni fa sarebbero state aliene.

Quest’anno qualcosa è cambiato, tanto che c'è voluto il caso Blanco per smuovere un po' la noia.

Da un lato i debuttanti hanno rischiato poco, adattandosi al contesto più che cercare di fare la loro cosa. Anche se molti pezzi andranno bene in radio e sui social, nessuna canzone sembra spostare di una virgola né i singoli percorsi artistici, né le sorti del pop italiano. 

I debuttanti hanno rischiato poco, adattandosi al contesto più che cercare di fare la loro cosa.

Ariete ha portato un pezzo dal sapore It-Pop scritto con Calcutta, che aggiunge molto poco a un genere già di per sé logoro come Calcutta stesso. Lazza ha un pezzo discreto ma lontano dalla sua cifra più originale, oltre che dal rap come genere. Mara Sattei si fa produrre dal fratello Tha Sup una lagna degna della gestione Bonolis (che è un po’ come comprarsi un iPhone per mandare gli sms). “Egoista” di Shari include fra gli autori Salmo, ma non si capisce bene dove. Persino a livello di arrangiamenti il nuovo è rappresentato da Dardust, che era “nuovo” quattro anni fa (ma nuovo a Sanremo, non a livello assoluto) .

Ariete
Noi siamo i giovani, i giovani, i giovani.

Dall’altro, i “nuovi” degli scorsi anni che sono ritornati a Sanremo hanno incassato gli interessi senza investire nulla. Colapesce e Dimartino – che probabilmente hanno il pezzo migliore in gara – non aggiungono una virgola a “Musica leggerissima”, ma si assestano su una rendita di posizione, celebrando il vintage italiano tardi anni settanta più che provare a seguire percorsi più originali e contemporanei, come hanno spesso fatto nella loro produzione extra-Festival.

I “nuovi” degli scorsi anni che sono ritornati a Sanremo hanno incassato gli interessi senza investire nulla.

Madame ha portato un pezzo di Madame. Elodie ha portato un pezzo di Elodie. Rosa Chemical ha occupato lo slot “Achille Lauro” con un pezzo carino, ma con un tentativo di provocazione così blando che solo un senatore di Fratelli d’Italia ci potrebbe abboccare. I Coma cose hanno rinunciato a ogni gioco sul significante nei testi (la loro cifra) per una versione indie di “Fiumi di parole” dei Jalisse. Persino Tananai, perdente dell’anno scorso e vincitore negli streaming, ha puntato su una ballad sanremese (pur con interessante integrazione transmediale).

Coma Cose
«Ti darò il mio cuore, se vuoi, se vuoi» (foto dal profilo FB del Festival di Sanremo)

In un bel pezzo per Soundwall, Damir Ivic ha parlato di «Restaurazione» e di un festival che «si sta rivelando un ritratto di Dorian Gray al contrario: chi vi si specchia, chi ci entra, diventa improvvisamente più vecchio. Più vecchio nel modo di porsi; più vecchio nello stile, più vecchio nel pensiero, più vecchio nella refrattarietà a rischiare e ad imporre la propria personalità».

In realtà, Sanremo ha sempre normalizzato (e forse invecchiato) quello che ci è passato in mezzo. Alle prese con il nuovo musicale, ha sempre preferito seguire a distanza di uno-due anni, assorbendo le innovazioni quando erano già ampiamente accettate. Il rock’n’roll, che in Italia esplode definitivamente nel 1958, si impone al Festival solo dal 1960. I cantautori sbocciano nel 1960 e colonizzano Sanremo nel 1961. Il beat arriva quando la British invasion è già quasi vecchia, la psichedelia nel 1971… e così via, fino alla trap che sale sul palco dell’Ariston nel 2019 già in versione purificata, dopo il boom del 2016-17.

Però Sanremo – ce lo dimentichiamo sempre quando ne parliamo – non è un essere senziente, un organismo astorico con delle logiche indipendenti dal mondo e dalla cultura in cui “esiste”. Non serve certo essere marxisti materialisti per spiegare Sanremo in relazione al sistema dei media e di produzione (ma certo aiuta). 

Non serve certo essere marxisti materialisti per spiegare Sanremo in relazione al sistema di produzione e dei media (ma certo aiuta). 

Se Sanremo ha operato in un certo modo negli ultimi anni, allargando il campo della selezione includendo musicisti che non avrebbero mai fatto il Festival fino a pochi anni fa, o che ci sarebbero approdati come eccezione e non come norma, è perché questa inclusione, questa apertura al nuovo, aveva un senso in quel mondo e in quel sistema dei media.

E se ora questo non avviene più… beh, o è un caso (e lo scopriremo l’anno prossimo, alla quinta tornata di Amadeus) oppure, più probabilmente, qualcosa è cambiato. Ed è lo stesso Sanremo che ha contribuito a cambiarlo.

Il rinascimento di Sanremo (di nuovo, gestione Baglioni e primi anni di Amadeus) coincide con il definitivo ribaltamento di peso economico fra la “vecchia” industria musicale e quella alimentata dallo streaming, che agisce in un ecosistema di social media e che hanno il suono e l’audiovisivo al centro del loro stesso funzionamento: Instagram post-Stories, TikTok, eccetera.

Lo stesso Sanremo è rinato attraverso i social, e – i dati lo dimostrano – sempre di più va analizzato come forma di intrattenimento a cavallo di media diversi. La gente lo guarda e lo ascolta non solo in tv, ma negli spezzoni smontati (e ri-mediati) su Instagram, su Facebook, su YouTube, su RaiPlay, diffusi via Whatsapp… Sanremo è ora su TikTok, e persino Rai ha aperto un suo account – ed è molto interessante che lo abbia fatto, perché TikTok in quanto piattaforma audiovisiva è un competitor di Rai, e lavora per sottrarre tempo, e dunque profitto (ancora, il materialismo…) alla “vecchia” televisione. 

Sanremo è ora su TikTok, e persino Rai ha aperto un suo account – ed è molto interessante che lo abbia fatto, perché TikTok in quanto piattaforma audiovisiva è un competitor di Rai.

I dati di ascolto ufficiali, intanto, mostrano una crescita mostruosa nella fascia bambini e adolescenti, soprattutto nel pubblico femminile (+78,82% nelle femmine 8-14; + 85,33% nelle femmine 15-24 nella prima serata)… un pubblico che probabilmente guarda Sanremo mentre usa TikTok o Instagram, come del resto faccio anche io che ho quasi 40 anni.

Non è certo un caso l’exploit inatteso di Mr. Rain nel voto popolare: la sua canzone sembra puntare proprio al target infanzia e prima adolescenza, che spesso molti musicisti trascurano e che invece oggi – anche grazie a TikTok – vale tantissimo (nel senso di profitto, ancora).

Quando negli scorsi anni Sanremo si è aperto al nuovo – ed è indubbio che lo abbia fatto – quel “nuovo” stava diventando il settore di traino dell’industria musicale dopo decenni di carestia e morte. Spotify era terreno soprattutto per gli adolescenti, le classifiche erano monopolizzate da rapper e trap boys e per la prima volta lo streaming muoveva tanti soldi, garantendo ricavi che il mercato fisico non toccava dai tempi in Pippo Baudo salvava aspiranti suicidi dalla balconata dell’Ariston (dove mi trovo mentre sto scrivendo questo pezzo).

Sanremo è andato a rimorchio, e così facendo si è reso interessante anche a quel nuovo pubblico. Serviva far passare un vecchio format alle nuove generazioni, mentre in parallelo Spotify veniva poco a poco esplorato anche dalle generazioni più vecchie.

Le regole del grande gioco dello streaming stanno cambiando, e forse sta cambiando di nuovo tutto.

Ora lo streaming non è più solo un gioco per ragazzini, e gli equilibri si stanno forse spostando. Per dire: uno come Gianluca Grignani – che non è propriamente un Gen Z – ha 3.500.000 ascoltatori mensili su Spotify. “La mia storia fra le dita” in versione spagnola conta 250milioni di stream (soprattutto in America Latina). Le regole del grande gioco dello streaming stanno cambiando, e forse sta cambiando di nuovo tutto.

Dunque, come dopo ogni (piccola) rivoluzione a Sanremo sta arrivando la restaurazione? L’ondata di "nuovo" (dal punto di vista creativo, artistico) che lo streaming sembrava poter garantire si sta già normalizzando?

Dunque, come dopo ogni (piccola) rivoluzione a Sanremo sta arrivando la restaurazione? L’ondata di "nuovo" (dal punto di vista creativo, artistico) che lo streaming sembrava poter garantire si sta già normalizzando?

Se così fosse, non possiamo che stupirci della sempre maggiore rapidità dei cicli con cui si modifica l’industria dell’intrattenimento, e di come modalità innovative di fruire la musica possano cambiare radicalmente logica e pubblici nel giro di un paio di stagioni appena.

In mezzo a tante domande aperte, l’unica certezza che questo Sanremo sembra consegnarci è allora sempre quella: Sanremo rispecchia e racconta quello che succede nel mondo musicale e nell’industria. Ma allo stesso ce lo rimanda indietro distorto, modificando nel profondo quello stesso mondo in cui esiste, e in cui esistiamo noi tutti ascoltatori e ascoltatrici di musica.

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