Ian William Craig
Centres
130701
Uno potrebbe dire: “In passato aveva pubblicato già otto album, non era meglio svegliarsi prima?”. Vero. Ma se è per questo, nemmeno Wikipedia ne dà notizia: hai voglia a intercettarlo! Scommettiamo, però, che d’ora in avanti il trentaseienne di Vancouver diventerà un caso? Centres è a suo modo un’opera maestosa, infatti: ci entri dentro e non vorresti più uscirne. Quasi un’esperienza amniotica. E sullo sfondo aleggia un concept suggestivo: poiché in origine Craig esercitava il proprio estro nell’ambito delle arti visive, occupandosi in particolare di calcografia, a un certo punto si è messo in tesa di trasporre quel metodo – una matrice incisa da cui ricavare la stampa – su scala musicale, impiegando – oltre a fonti sonore più o meno tradizionali: chitarra, organo Hammond, sintetizzatori analogici e fisarmonica, nell’occasione – vecchi registratori a bobina e altri aggeggi vintage (fra i tanti: un filofono), sovente malfunzionanti.
Sono questi ultimi a generare la matrice di cui sopra. Risultato: musiche “difettose”. Un po’ come nel cosiddetto “glitch”, portato qui alle conseguenze estreme. O certi esperimenti con i nastri magnetici di William Basinski. All’ascolto non così lontane dalle visioni ipnagogiche di James Leyland Kirby, alias The Caretaker. Saremmo in zona avant-garde, insomma: lo prova il marchio 130701 – sussidiaria “neo classica” dell’indipendente inglese FatCat – impresso sul disco, primo del canadese in quei ranghi (da cui la maggiore visibilità rispetto ai precedenti). E tuttavia c’è qualcosa di vagamente “pop”, stile James Blake, se vogliamo: provare l’elegiaca “Purpose (Is No Country)” per credere. Uno struggimento emotivo che s’insinua fra le pieghe di ambientazioni astratte. Esemplare in tal senso è, subito all’inizio, “Contain”, dove lo spleen incrina la solennità astrale del contesto.
Lo stesso brano, tramutandosi all’epilogo dalla versione “Astoria” in quella “Cedar”, diviene squisito acquerello impressionista per chitarra acustica e voce. Già, la voce: Craig – da adolescente fan di Freddie Mercury – ha studiato canto lirico e militato a lungo in ensemble corali. A tratti si sente: nell’avveniristico madrigale chiamato “The Nearness”, oppure in “A Single Hope” e nella successiva “Arrive, Arrive”. Per usare una banalità, sembra musica di un altro mondo: “An Ocean Only You Could See” è una sinfonia in miniatura che potrebbe scrivere un astronauta – tipo il Major Tom di Bowie – smarrito negli spazi siderali. Per farla breve: Centres è un album pazzesco. Alberto Campo