Jan Erik Kongshaug, l'arte di registrare il silenzio

È morto a Oslo Jan Erik Kongshaug, ingegnere del suono collaboratore di Manfred Eicher e tra gli inventori del "suono ECM"

Jan Erik Kongshaug
Jan Erik Kongshaug (foto di Luca Vitali)
Articolo
jazz

Per una strana ironia della sorte, proprio mentre si celebrano i 50 anni della ECM al festival JAZZMI di Milano, e nel giorno stesso in cui Stefano Amerio, tecnico del suono e alfiere dell'etichetta tedesca, parla di quel suono così “prossimo al silenzio” (come recita il motto dell’etichetta: The Most Beautiful Sound Next to Silence) che da sempre la contraddistingue, a lasciarci è proprio colui che, con Manfred Eicher, lo ha plasmato: Jan Erik Kongshaug

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Il suono di cui stiamo parlando nasce a Oslo nel 1970, nel piccolo studio pop di Arne Bendiksen. Era la prima volta che Manfred e Jan Erik si incontravano, oltretutto fortuitamente: per via di una registrazione andata male, che andava rifatta, e di un fonico non disponibile, che andava sostituito. In quel giorno fatidico della prima registrazione ECM, Kongshaug ed Eicher sono entrambi alle prime armi, ma hanno le idee chiare ed escono dallo studio soddisfatti: sarà la prima di una lunga serie di registrazioni che almeno fino a Belonging (ECM 1974) funzioneranno a meraviglia, in quel piccolo studio.

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Terje Mosnes, Manfred  Eicher e Jan Erik Kongshaug (foto di Randi Hultin)

Vale la pena ripercorrere le tappe di quello che molta critica internazionale ha definito “Nordic Tone”, perché sono inseparabili dalle vicende professionali di Kongshaug, mancato lo scorso 5 novembre a 75 anni.

Rava / ECM in Special Edition

Nato a Trondheim a metà degli anni Quaranta e figlio di un chitarrista e di una cantante, Kongshaug entra presto in contatto con il mondo della musica. Dopo un primo apprendistato con la fisarmonica, per le comprensibili difficoltà del tempo a trovare un pianoforte, decide di iniziare a suonare la chitarra, e con quella s'imbarca su una nave passeggeri che fa la spola fra Oslo e New York, suonando a bordo per un anno intero: un percorso tipico, per gli aspiranti jazzisti dell'epoca.

Al rientro si iscrive all'Università, Facoltà di Elettronica, dove ha il primo vero contatto con la materia che condizionerà il suo futuro. Di lì a qualche anno entra a far parte dello staff della radio nazionale e, terminata l'università nel '67, in occasione del concorso internazionale Eurovision Song Contest, inizia a suonare con la band di Kjell Karlsen. Una quasi-professione, quella di musicista, che in parallelo gli consente di muovere i primi passi come tecnico del suono all'Arne Bendiksen Studio, grazie proprio a Kjell Karlsen. 

«È il 1967 e non ho idea di cosa significhi registrare e fare il mestiere del sound engineer. Suono a Molde con Asmund Bjorken e per la prima volta inizio ad affiancare il mestiere di musicista a quello del sound engineer… Il lavoro in studio, all'inizio, era davvero semplice: sei canali, tre a destra e tre a sinistra, senza panoramica, in uno studio molto piccolo con una consolle a valvole. E poi avevamo due registratori a 2 tracce e registravamo la band in modalità stereo su due tracce, e poi copiavamo quel nastro su un altro nastro a 2 tracce. E così via, avremmo potuto ripetere il processo all’infinito (…)». 

Niente a che vedere con quello che si può fare oggi col computer, ma è esattamente in quegli anni che arrivano in studio – il Bendiksen era uno studio di musica pop e offriva apparecchiature inimmaginabili per uno studio di jazz a quel tempo – un registratore a otto tracce e una nuova consolle inglese Neve: «un banco di missaggio fantastico, ancora oggi tra i marchi migliori».

Ed è in quegli anni, che viene posta la prima pietra del suono ECM, con la registrazione dell’album Afric Pepperbird (ECM 1970): in studio c’è Jan Garbarek col suo quartetto (Terje Rypdal, Arild Andersen e Jon Christensen).

ECM - Afric Pepperbird

Per la registrazione, i microfoni vengono posizionati vicino ai musicisti e ai loro strumenti: un primo piano “intimo” attorno al quale il suono che Eicher vuole deve essere creato artificialmente. E Jan Erik ci riesce con un riverbero EMT appena arrivato in studio.

All’epoca il riverbero di Afric Pepperbird era percepito come forte, artificiale. Ai giorni nostri siamo abituati alla costante presenza del riverbero Lexicon nelle produzioni ECM (dal 224L di quel tempo fino al più recente 960L – autentico marchio di fabbrica dell’etichetta), e Afric Pepperbird suona, al nostro orecchio, decisamente più “asciutto”. 

Fino al 1974 Jan Erik è stabile all’Arne Bendiksen Studio, ma dall'autunno del 1975 al 1979 si sposta allo studio Talent per diventare poi un libero professionista, richiestissimo, e senza una base fissa lavora per Eicher e altri a Trondheim, Oslo e New York, prima di fondare, nel 1984, il primo Rainbow Studio a Oslo, in quello che era la Grünerløkka Folkets Hus nell’ex area industriale della Grünerløkka. 

Il Rainbow è uno studio bello, grande per quegli anni (circa 150 metri quadri), luminoso e con tanto legno: un luogo ideale nel quale Manfred Eicher, che assiste sempre alle registrazioni, trascorrerà molto tempo negli anni a seguire. D'altronde ECM è il principale cliente del Rainbow, le sue sessioni occupano il 40-50% del tempo, e quanto ai generi è il jazz a prevalere con circa il 60% del tempo. Ma Kongshaug registra anche altri generi: folk, classica, pop… e per altre etichette, come la Blue Note, oltre che per musicisti autoprodotti o clienti diversi provenienti da Germania, Inghilterra, Brasile. 

Insomma, il nome di Kongshaug e del suo Rainbow appaiono, in quell’epoca, su molti album: sono gli anni di Paul Bley, di Masqualero, del debutto per ECM di Sidsel Endresen con So I Write (ECM 1990), dell'arrivo di Charles Lloyd ma anche di Song X di Ornette Coleman e Pat Metheny pubblicato dall'etichetta Geffen… Tutto al Rainbow. 

Eicher e Jarrett
Manfred Eicher e Keith Jarrett (foto di Randi Hultin)

Nel frattempo Kongshaug prosegue la sua attività di musicista, ma in forma minore e pubblicando alcuni album con etichette locali (a eccezione di The Other World, pubblicato dalla tedesca Act nel 1999).

Tutto al Rainbow, dicevamo, ma al “primo”, Rainbow, perché nel 2004, dopo vent'anni di attività, al piano sottostante apre un locale e il rumore costringe Jan Erik a trovare una nuova sede. Il nuovo Rainbow sarà in Sandakerveien 24, dove Jan Erik ristruttura un vecchio locale industriale e realizza uno studio ampio, bellissimo, lo stesso all’interno del quale lo incontrerò e intervisterò io, nel 2010, raccogliendo dalla viva voce di quell’uomo gentile e dall’umiltà tipicamente norvegese una quantità di informazioni che mi sarebbero state preziose per la stesura de Il suono del Nord (Auditorium); naturalmente anche il virgolettato del presente articolo risale a quel pomeriggio).

Il nuovo studio, insomma, è un posto da favola: eppure, secondo alcuni dei musicisti più assidui, non sarebbe mai riuscito a raggiungere il suono del primo, memorabile, Rainbow.

Rainbow studio
Il Rainbow

Ai primi anni della collaborazione fra Jan Erik ed ECM si deve un’influente serie di registrazioni per solo pianoforte: Piano Improvisations di Chick Corea, volumi 1 e 2; Facing You di Keith Jarrett e Open, To Love di Paul Bley. Jan Erik lavora a stretto contatto con Eicher. Non solo: all'inizio degli anni Settanta Kongshaug è il trait d’union fra ECM e la piccola Oslo, il vero catalizzatore per chi arriva in città a registrare con Eicher e la sua etichetta, e questo dà il via a un'autentica svolta per la scena norvegese. Arrivano molti musicisti internazionali e al Club 7 si tengono jam e concerti indimenticabili. 

Per queste situazioni live, però, Kongshaug non si sente portato: è un altro mestiere, e lui preferisce il lavoro in studio. 

«Feci alcune registrazioni dal vivo, mi occupai di Listen to the Silence di George Russell al festival di Kongsberg, in una chiesa, con il coro e Garbarek; poi feci qualche registrazione proprio al Club 7. Registrazioni davvero belle, di Webster Lewis con Jimmy Cobb alla batteria; e poi di Hallvard Kvåle, e Inger Lise Rypdal (a quel tempo moglie di Terje), ma non mi piaceva: troppo difficile ottenere un buon suono con tutta quell'amplificazione sul palco». 

Jan Erik è sempre stato un maestro del suono da studio e ha sempre creduto e lavorato su una buona sorgente fin dalla fonte. Non è un caso che il suo strumento di lavoro più importante sia sempre stato l'orecchio; e che con Eicher si sia appassionato all’esplorazione dei microfoni: scelta, posizionamento...

Tutti coloro che hanno registrato al Rainbow sanno che Jan Erik era un grande professionista, rapido e silenzioso oltre che efficace e attento a ogni aspetto e sfumatura. Se volevi utilizzare il gran coda Steinway, era lì pronto e accordato alla perfezione (poco prima) da un altro maestro come Thron Irby. I microfoni di ogni strumento sempre pronti e posizionati con precisione, per evitare di dover rimediare – poi – intervenendo al mixer.

Kongshaug terrà la sua creatura, il Rainbow Studio, fino al 2017 quando, purtroppo malato, deciderà di venderlo. Lungo la sua carriera ha registrato oltre 4000 album, di cui quasi 700 insieme a Eicher per ECM, e nel 2013 la biblioteca nazionale norvegese ha rilevato, da ECM, i nastri con i master del Rainbow Studio, per preservarli.

Ed è così che nel 2019 il suo paese gli ha tributato importantissimi riconoscimenti: a gennaio gli viene conferita la Medaglia al Merito di Sua Altezza Re Harald V al Caféteatret di Oslo, e a marzo l’editore Christer Falck gli dedica una tre giorni di festival al Cosmopolite and Belleville – dal titolo Kongshaugfestivalen – in cui si esibiscono 46 artisti e 16 band, ospiti fissi del suo studio in quasi cinquant’anni di carriera.

Pur avendo dato vita ad alcune delle registrazioni più memorabili del jazz internazionale, Jan Erik, in pieno spirito norvegese, non ha mai celebrato i suoi meriti. A sentir lui, erano sempre le favolose qualità dei musicisti o l'attenta manutenzione del pianoforte a coda, a fare tutto… 

Un campione di modestia oltre che un grande professionista, lascia un vuoto incolmabile ma anche una folta schiera di tecnici del suono di altissimo livello (uno diverso dall’altro per estetica e qualità) e un patrimonio prezioso e indimenticabile per la comunità internazionale del jazz, e non solo.

Che la terra ti sia lieve e il tuo arcobaleno possa continuare a splendere, caro Jan Erik.

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