ITALODISCHI #4 2024 – Oltre i generi del pop

Mace, I Hate My Village, Valeria Sturba, Dining Rooms, Giuro, Gatti Alati, Elena Paparusso, Gaia Morelli, Paolo Tarsi: le novità dell'ultimo trimestre italiano

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Chi di voi ha seguito gli Europei di calcio che si sono conclusi da poco avrà forse notato, fra le critiche mosse all’allenatore della nazionale Luciano Spalletti, di come sia ritenuto un ottimo allenatore ma un cattivo selezionatore.

Ora, io grazie al cielo non devo allenare nessuno, ma quanto al compito di selezionatore vi garantisco che non è affatto facile neanche per me: scegliere una manciata di titoli tra numerose decine è sempre più complicato, tant’è vero che a questo giro, che dovrebbe coprire il secondo trimestre, ho dovuto restringere il campo ai mesi di aprile e maggio (giugno entrerà nella rassegna sul periodo estivo, che grazie al cielo è un po’ meno affollata). E allora via alle danze.

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Mace, MĀIĀ

La copertina la riserviamo a Mace, che col suo terzo disco MĀIĀ si conferma come uno dei personaggi più importanti nell’evoluzione del pop italiano di questi anni. E il motivo è molto semplice: sembra che con Mace (aka Simone Benussi) ogni barriera stilistica scompaia, che la musica sia talmente omnicomprensiva da essere inclassificabile.

Sul fatto che in passato sia stato confuso come uno dei tanti produttori trap, spero che l’equivoco sia ormai chiarito: la trap ormai non è che uno degli ingredienti del suo mix musicale, accanto a quella troviamo la dance da club, il soul, l’hip hop, il rock, perfino (o soprattutto?) la musica leggera. E il fatto che Mace agisca come produttore e non canti le sue canzoni diventa un pretesto per aprire le porte a una sera infinita di collaborazioni intersezionali e intergenerazionali: da Coez a Venerus, da Rkomi a Fulminacci, da Frah Quintale a Cosmo, da Fabri Fibra a Salmo a (addirittura!) Marco Mengoni.

C’è in questo disco un’esplosione di creatività talmente esuberante ed eclettica che dovrebbe essere preso come punto di riferimento per la musica italiana dei prossimi anni.

I Hate My Village, Nevermind The Tempo

Clamoroso ritorno anche per gli I Hate My Village – per gli smemorati: il supergruppo formato da Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Marco Fasolo (Jennifer Gentle) e Alberto Ferrari (Verdena).

Chi li ha visti nel recente tour (memorabile la loro performance al Jazz Is Dead di Torino a fine maggio) ha trovato la band in gran forma e in netta crescita rispetto al già ottimo esordio di qualche anno fa. Con Nevermind The Tempo appaiono un po’ meno sfacciate le influenze afro che marcavano in modo decisivo le prime prove, ma non per questo la componente ritmica è trascurata, anzi; il beat è onnipresente e tendente all’uptempo (e, en passant, rimarchiamo ancora una volta la bravura di Fabio Rondanini, probabilmente il più grande batterista italiano in attività), in un modo che avvicina maggiormente il sound ai Talking Heads di Remain In Light o a certa new wave tra la Ze Records e i Material.

Resta tuttavia un’originalità di scrittura che ha termini di paragone veramente difficili, un’esplosione di pop in freestyle di ardua catalogazione tanto stilistica quanto geografica. E dire di un gruppo che è assolutamente unico è probabilmente il miglior complimento che gli si possa fare.

Dining Rooms, Songs To Make Love To

Hanno la loro unicità anche i Dining Rooms, ormai dei veterani della scena elettronica: Songs To Make Love To è il loro decimo album, marca 25 anni di attività, e si snoda all’insegna di un’ammirevole continuità stilistica. I due vulcanici milanesi dietro a questo progetto, Stefano Ghittoni e Cesare Malfatti (quest’ultimo contemporaneamente impegnato nel tour nazionale dei La Crus) sono tra i pochi act nati negli anni Novanta sull’onda dell’elettronica downtempo che hanno saputo rinnovarsi senza tuttavia rinnegare il loro stile distintivo.

Se si pensa a quanto era schematico e ritmicamente stolido il trip hop, qui siamo davvero su un altro pianeta: ci sono inserti psichedelici, di space funk, di jazz, e perfino, a questo giro, dei field recordings… e tuttavia il legame con la club culture di fine millennio e la fedeltà alla bassa battuta sono ancora presenti, seppur ammodernati e arricchiti di mille influenze – sentire ad esempio “Fior di veleno”, un pezzo che sarebbe piaciuto a Luke Vibert.

I Dining Rooms sono ormai una garanzia per ogni appassionato di elettronica d’ascolto.

Gatti Alati, Gatti Alati II

Ma passiamo a qualcosa di più inconsueto, se no che gusto c’è? Ad esempio al disco nuovo dei Gatti Alati, un atipico duo formato da Emanuele Gatti dei News For Lulu e Christian Alati dei Gatto Ciliegia. Il loro esordio data addirittura del 2017, e questo Gatti Alati II è uscito in sordina, a sorpresa e senza nessuna promo ufficiale ai primi di aprile.

Per tutti gli ascoltatori di pop sbilenco, di quello che ti sembra sfuggente ma invece ti si insinua sotto pelle e non ti molla più, è un album ideale. E pur essendo inevitabile considerarlo un disco pop, non ci sono cedimenti melodici o concessioni facili: la musica svaria invece da cavalcate paradossali (“È cambiata l’atmosfera”) fino ad atterrare sul dancefloor come lo farebbe Cosmo (“Galatea”). A dispetto della modesta popolarità che sembra poter avere, Gatti Alati II è uno dei dischi più divertenti e stimolanti sentiti quest’anno.

Giuro, Istinto

È interessante confrontare il disco precedente con un prodotto che invece è perfettamente rappresentativo dell’it-pop del 2024. A titolo di esempio ho preso l’esordio di Giuro, Istinto. Un disco che nella sua gradevolezza è quasi impalpabile, canzoni come bolle di sapone, un po’ l’effetto che (perlomeno a me) fanno Colapesce Dimartino.

Scritto benissimo, prodotto ancora meglio e probabilmente anche con un buon potenziale commerciale, se ha la fortuna di imbattersi nei canali giusti. E anche se si può perfino ritenere migliore di tanti altri dischi di successo, la cosa che emerge soprattutto è questa perfezione nel suono e nella composizione che lo fa sembrare quasi irreale.

Paolo Tarsi, Unnatural Self

Poi ci sono i dischi che si rifanno a epoche e suoni del passato. Moltissimi, ad esempio, quelli che richiamano gli anni Ottanta e al loro immaginario, seppur questo sia ormai da tempo diventato un cliché.

Tra i tanti, mi va di segnalare quello di Paolo Tarsi, una terza prova, che quantomeno riesce a trovare un difficile punto di equilibrio tra il rock gotico di Cure et similia, il techno pop di matrice puramente elettronica e la canzone digitale di ultima generazione.

Unnatural Self trascende così l’epoca di riferimento e suona relativamente moderno; certamente il lavoro è straordinariamente accurato e i numerosissimi ospiti presenti (tra i quali spiccano Andrea Tich, Blaine L. Reininger e John Helliwell) danno un contributo importante.

Elena Paparusso, Anatomy of the Sun.

Non ho ancora menzionato donne in questa rassegna e non sia mai, anzi mi tengo le cartucce migliori per la fine. La prima che vale la pena di segnalare è Elena Paparusso e il suo Anatomy of the Sun. Si tratta di un album di cantautorato jazz, cantato per lo più in inglese, e di primo acchito l’approccio fa pensare a Rickie Lee Jones, anche se l’interpretazione è forse più vicina alla Joni Mitchell di Mingus o ad altre artiste di genere quali Karen Mantler. A

bbiamo comunque a che fare con un disco riuscitissimo e, oltre che cantato e suonato alla perfezione, anche ricco di quell’emotività che a tratti difetta a questo tipo di produzioni.

Gaia Morelli, La natura delle cose

Peculiare anche la proposta di Gaia Morelli, che esordisce come solista dopo l’esperienza con una band alternative (i Baobab!). La voce ricorda molto quella di Madame, ma qui il substrato musicale non è l’hip hop bensì l’indie – specialmente quello americano e di matrice cantautorale.

La natura delle cose ha però dalla sua un invidiabile eclettismo e il ventaglio di suoni e arrangiamenti dell’album, da atmosfere acustiche quasi classicheggianti a improvvise esplosioni di chitarre elettriche, è un suo indubbio pregio. Al contempo, i testi, pungenti e originali, fanno di queste canzoni dei quadretti deliziosi.

Valeria Sturba, Le canzoni strane

Un gradino ancora sopra è però Valeria Sturba, che finora abbiamo conosciuto come metà degli OoopopoiooO e che ora esordisce come solista. Il disco si chiama Le canzoni strane e il suo titolo è sicuramente adatto a una macro descrizione di questi pezzi, che di primo acchito sembrano filastrocche apparentemente innocue; ma che a un ascolto attento si rivelano pastiche di complicata delicatezza, assemblamenti di pop stralunato che parte da minimali orchestrazioni di archi e si sviluppa su ardite arrampicate vocali o inattese evoluzioni strumentali.

Polistrumentista eccelsa, Valeria si avvale nel disco di contributi non trascurabili dei soliti noti (dal compagno di band Vincenzo Vasi a molti altri, tra cui Pilia, Gabrielli e Rondanini) e il risultato è uno strambo, sbilenco e affascinante disco che merita assolutamente una scoperta.

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