Il Sanremo del rap e dei social

Considerazioni finali su Sanremo 2024: il rap, le "canzoni da Sanremo" e il futuro del Festival

Sanremo 2024 finale
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Sanremo è finito, andiamo in pace. Nel giro di qualche giorno ci si dimenticherà delle polemichette – che comunque quest’anno sono state mosce mosce (salvo il colpo di coda su Israele) e quello che rimarrà saranno le canzoni, che colonizzeranno radio, piattaforme e social media per i prossimi mesi (e che anche loro, quest’anno, un po’ mosce sono state, salvo colpi di coda).

– Leggi anche: Le pagelle di Sanremo 2024 (tutte le canzoni)

– Leggi anche: Le pagelle della serata cover di Sanremo 2024

Qualche considerazione finale a partire dai temi di cui tutti hanno parlato questa settimana.

«Sanremo è troppo lungo, che senso ha fare dirette di cinque ore?»

C’è in fondo una sottile ironia nel fatto che la canzone vincitrice del Sanremo 2023 si intitoli “La cumbia della noia”.

Uno dei meme più diffusi negli ultimi anni riguarda proprio la durata del Festival di Sanremo. Che non ha mai brillato per sintesi, ma che negli anni di Amadeus si è avvicinato per lunghezza al Mahabharata di Peter Brook (e che nella serata finale l’ha probabilmente superato), spostando sempre più in su l’asticella del tedio e del sonno di più del 70% dello share televisivo.

sanremo 2024
«Nessuno uscirà vivo di qui»: la scaletta ufficiale dell'ultima serata di Sanremo 2024

E tuttavia, la lezione numero uno che dovremmo tenere a mente quando parliamo di Sanremo è che il Festival non è un essere dotato di arbitrio o un capriccio di Amadeus, ma un prodotto del mondo in cui esiste, che per brevità chiamiamo tardo capitalismo. Anche per chi non gira con Carlo Marx tatuato sull’avambraccio (ci sarà qualche trap-boy che si è spinto così in là?) è ovvio ammettere che i rapporti socio-economici sono fra le forze motrici della Storia, anche di quella della canzone.

Se Sanremo è così, non è dunque per caso. Se le serate sono così lunghe non è per una ripicca sadica del direttore artistico.

Se Sanremo è così, non è dunque per caso. Se le serate sono così lunghe non è per una ripicca sadica del direttore artistico.

C’è chi tira in ballo la raccolta pubblicitaria, che si spalma su più ore e può dunque vendere più spot. Altri ricordano che Sanremo serve da vetrina per lo streaming, e dunque «più siamo e meglio è» come cantava Rosa Chemical l’anno scorso. Sono entrambe considerazioni corrette, ma che si fermano alla superficie.

A un livello più profondo, se Sanremo è così c’entra la radicale metamorfosi del modo in cui fruiamo la musica negli anni dello smartphone e delle piattaforme. 

Nelle mie pagelle avevo scritto, scherzando, che Sanremo non è compatibile con il lavoro dipendente. Non lo sarebbe neanche con l’andare a scuola – ed è rilevante, dato che le statistiche suggeriscono come una parte importante dell’audience negli ultimi anni sia quella degli adolescenti. In realtà, da persona che ha seguito tutto il Festival per ragioni professionali ma anche semplicemente (inutile negarlo) perché mi piace farlo, sono il primo ad ammettere che non è possibile seguire tutto il Festival. 

O meglio: oggi seguire il Festival non è la stessa cosa che seguirlo nei primi anni duemila, l’epoca buia dei Gazosa e dei Giò di Tonno, quando all’ennesimo pippozzo dell’ospite del momento si passava su Rete 4 per vedere un pezzettino del Ponte sul fiume Kwai.  

Ora si guarda lo smartphone: si cazzeggia, si commenta, si dicono cattiverie sui cantanti, ci si informa su quanti anni ha la cantante dei Ricchi e Poveri (76) e su chi è la fidanzata di Geolier (si chiama Valeria, l’ho googlato). Nell’epoca della connessione costante la noia non è più contemplata, e il nostro modo di seguire Sanremo è cambiato di conseguenza. 

Il Sanremo televisivo di questi anni non è lontano da un format da spettacolo popolare di una volta (il cinema degli esordi, il cafè chantant, in un certo senso l’opera), sempre meno legato a un palinsesto o a una trama e sempre più flusso aperto, da cui si può entrare e uscire liberamente, e soprattutto che chiede di essere fruito facendo altro e collettivamente

Il Sanremo televisivo di questi anni non è lontano da un format da spettacolo popolare di una volta da cui si può entrare e uscire liberamente e che chiede di essere fruito facendo altro e collettivamente

Questo altro riguarda in gran parte l’interazione con più schermi, e quello televisivo al limite non è neanche contemplato. Sanremo è oggi compiutamente transmediale e la sua fruizione non può in nessun modo passare solo dalla vecchia tv. La stessa Rai ha investito in una piattaforma (RaiPlay) in grado di mettere a disposizione rapidamente sketch e singole esibizioni, conferenze stampa e interviste, facendo di fatto quello che fanno i social (meno efficacemente, ma questo è un altro problema). 

L’interazione su più schermi non è però riducibile a forma di solipsismo: è una pratica collettiva. Riguarda un sentirsi parte di una comunità: la comunità che guarda Sanremo, la comunità che lo odia, quella che lo ama, persino la comunità nazionale visto il ruolo che il Festival ha avuto e ha nella costruzione di un’idea condivisa di italianità. Significa ascoltare insieme, e ci riporta a uno degli elementi più umani del fare musica.

L’interazione su più schermi non è però riducibile a forma di solipsismo: è una pratica collettiva. Significa ascoltare insieme, e ci riporta a uno degli elementi più umani del fare musica.

 

Il formato a trenta canzoni – ma potevano essere pure trentasei, quaranta – è allineato a queste forme di interazione, che portano alle estreme conseguenze – nel virtuale e non nel fisico, ma i confini ormai sono sempre più porosi – il modello dei gruppi d’ascolto (che non a caso stanno tornando in questi anni) e dell’ascolto condiviso.

Sanremo è sempre stato un generatore di discorsi e di polemiche (basta leggere i Sorrisi e canzoni degli anni cinquanta per farsene un’idea). I social non hanno fatto che dargli uno spazio nuovo per esistere e proliferare in questa forma.

«Non esiste più la “canzone da Sanremo”»

È ovvio che un tale upgrade nel modo in cui Sanremo esiste e colonizza il nostro immaginario non poteva non riguardare anche la forma delle canzoni. Si è parlato e scritto molto quest’anno (ma in parte già negli anni scorsi) sulla presunta fine della canzone sanremese. Mi pare che il discorso sia un po’ più complesso di così. La “canzone sanremese” non è mai esistita in sé. È piuttosto un costrutto culturale che si è delineato in rapporto alla storia del Festival e dei media attraverso cui Sanremo e le sue canzoni sono state diffuse, mutando nel tempo.

Qual è una tipica canzone sanremese? “Grazie dei fiori” di Nilla Pizzi che trionfò nel 1951 e che in realtà è una beguine molto ballabile? “Nel blu dipinto di blu”, che all’epoca fu ritenuto un brano rivoluzionario? “Brividi” di Mahmood e Blanco? O “La cumbia della noia” di Angelina Mango, che esattamente come la vincitrice della prima edizione è costruita su un ritmo africano-latino?

Negli ultimi decenni la “canzone da Sanremo” è divenuta sinonimo di brano melodrammatico, una ballad di solito a tempo lento o moderato che esplode nel finale con l’acuto, con una modulazione o semplicemente con un aumento dell’intensità sonora (praticamente qualunque canzone di Ultimo). Se è vero che quest’anno non moltissime canzoni seguivano questo schema, è però altrettanto facile dimostrare che nella storia di Sanremo ci sono sempre state, anche fra le vincitrici, canzoni che non rispondevano a quel tipo di retorica.

Piuttosto, esiste un format-Sanremo, una forza magnetica che attrae nel campo gravitazionale del Festival ogni genere musicale e lo distorce più o meno sottilmente. Lo dimostrano agevolmente, ad esempio, tutte le canzoni in gara quest’anno firmate da rapper (Geolier, Ghali, Il Tre, Fred De Palma, BigMama, Dargen D’Amico e via dicendo), tutte in un modo o nell’altro lontane dalla produzione più radicalmente “rap” dei loro interpreti.

A Sanremo ogni canzone viene più o meno sanremizzata. La "canzone da Sanremo" forse non è mai esistita in sé.

A Sanremo, cioè, ogni canzone viene più o meno sanremizzata. L’unica vera eccezione di quest’anno mi pare il brano di Mahmood, che a suo modo, con il successo di “Soldi”, ha imposto un nuovo modello di “canzone da Sanremo” che non pochi hanno seguito negli ultimi anni (Angelina Mango compresa). Era anche, probabilmente, il più bello fra i brani in gara.

Parliamo di canzoni (e di rap)

E parliamo allora delle canzoni di quest’anno. Il livello generale – lo si è già detto – non era particolarmente alto. Il Festival si conferma su una linea di restaurazione di cui ho parlato ampiamente l’anno scorso. Dopo il momento di rottura del tardo baglioniano/primo Amadeus, che ha coinciso non tanto con una diversa ispirazione dei direttori artistici ma con il ribaltamento del peso economico nell’industria musicale imposto da Spotify & co., si è tornati a uno status quo in cui è evidentemente più proficuo sfruttare il già noto che spingere sul nuovo.

Vale allora la considerazione dell’anno scorso: nel passaggio Amadeus/Baglioni «serviva far passare un vecchio format alle nuove generazioni, mentre in parallelo Spotify veniva poco a poco esplorato anche dalle generazioni più vecchie». 

Il processo si è completato, ora è la fase dell’incasso. E allora si includono meno nuovi autori (l’elenco di quelli di quest’anno lo dimostra) e si punta su musicisti già dotati di forte seguito, che arrivano a Sanremo più per ricordare al pubblico che esistono (Ghali, Gazzelle, Fred De Palma) invece che su personaggi cresciuti nel sottobosco e in cerca di un riconoscimento di massa (negli anni scorsi Colapesce e Dimartino, La Rappresentante di Lista, i Pinguini Tattici Nucleari, Motta, Lo Stato Sociale, Dargen D’Amico…). A meno di non voler includere in questo gruppo Bnkr44, La Sad e BigMama. 

Il caso del rap è in effetti piuttosto emblematico: non solo i rapper si sanremizzano, ma è abbastanza chiaro che il modello di Lazza – secondo l’anno scorso con “Cenere” – ha imposto un nuovo format di “canzone rap sanremese”, alla quale più o meno tutti hanno aderito. Lo stesso Geolier, pur con l’onestà intellettuale di portare un brano molto “suo”, ha virato sul côté più neomelodico... salvo fare rap la serata delle cover, e attrarsi gli ingenerosi fischi dell’Ariston.

Proprio il caso di Geolier e delle critiche che lo hanno investito fa emergere alcune delle contraddizioni più evidenti che riguardano il Festival di questi anni, e che probabilmente vedremo all’opera anche negli anni prossimi. Le polemiche sulla presenza di un brano in napoletano a Sanremo denotano più che altro ignoranza sullo statuto della canzone napoletana nella tradizione italiana. Quelle sul fatto che Geolier non canta in napoletano ma in un “napolese” pieno di prestiti italiani e sgrammaticature, pure, mi sembra dimostrino una scarsa comprensione dell’evoluzione delle forme musicali popolari e – in fondo – un pregiudizio di classe. Se vogliamo dire che Geolier non ha studiato la canzone napoletana classica e la tradizione, possiamo dirlo con ragione. Ma Geolier è quella cosa lì, e canta o rappa nella lingua che gli è familiare, quella che parla abitualmente. Perché deve essere un problema? 

Per continuare su questa linea, chi ha visto nel successo di Geolier – premiato dal televoto, nel suo arrivare secondo ha pesato il contrappeso del voto di sala stampa e radio – una rivendicazione territoriale del Sud, dimostra di non sapere chi è Geolier, che nel 2023 ha avuto l’album più ascoltato in Italia e che vanta una fanbase nazionale.

Piuttosto, è interessante che stia emergendo in maniera sempre più netta una frizione fra il televoto e il voto degli addetti ai lavori. Rispetto al passato, però, il voto da casa premia il rap: Geolier quest’anno, Lazza l’anno scorso.

Sembra già passata una vita (era il 2019) quando Mahmood vinse con “Soldi” sostenuto dalla sala stampa contro Ultimo e il Volo, premiati dal voto popolare. A voler fare sociologia tagliata con l’accetta, è il segno che a votare non sono più le casalinghe intrigate dal coatto-chic dei Renga-Nek ma i ragazzi e le ragazze che sostengono la fama dei loro idoli su social e Spotify. Angelina Mango, che pure aveva la canzone migliore, non ha (ancora) la fanbase di Geolier, e ha offerto un tipo di proposta più in grado di essere ecumenica e intrigare gli addetti ai lavori, anche per il modo delicato in cui si è presentato come “figlia d’arte”, senza mai spingere sul pedale del porno sentimentale. E alla fine ha vinto, perché a Sanremo vince quasi sempre il brano in grado di essere più trasversale. 

Fino a ora è stato così, ma la “canzone da Sanremo” – ammesso che sia mai esistita – sta ancora cambiando. Ce ne accorgeremo nei prossimi anni: la storia del nuovo Sanremo del rap è ancora tutta scrivere.

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