Il punto sul pop italiano 2023 (#3)

Recuperiamo gli ascolti dell'estate del pop nazionale: Birthh, Grand Drifter, The Whistling Heads...

Birthh (foto di Ikka Mirabelli)
Birthh (foto di Ikka Mirabelli)
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Ora che l’estate è veramente finita, malgrado l'ostinazione di ottobre ad apparire come una propaggine della bella stagione, possiamo tornare a valutare il periodo estivo e le sue pubblicazioni musicali italiane più significative.

– Leggi anche: Il punto sul pop italiano 2023 #1#2

Con le major essenzialmente impegnate a cercare il tormentone da spiaggia, i lavori in ambito album si sono bloccati, lasciando tutto lo spazio alle performance di artisti indie; poco male, poiché da luglio a settembre sono comunque usciti dischi di qualità degna di nota.

A dire il vero, un lavoro di statura veramente eccelsa nel passato trimestre non lo troviamo; per quello avremo dovuto aspettare ottobre e il bellissimo Selva di Marta Del Grandi, sul quale si è già dilungato Alberto Campo.

Ma siccome dev’essere il momento delle cantautrici italiane in terra straniera, iniziamo con Birthh, che col suo Moonlanded può esserne una validissima antagonista. Birthh, origini toscane, vero nome Alice Bisi, si trasferì a New York durante la pandemia, e da allora la sua arte si è espressa in perfetto equilibrio tra i mille stimoli della Grande Mela e le sue origini italiane; naturalmente dotata di una scrittura pop limpida ma non banale, le sue canzoni sono il punto d’incontro tra Suzanne Vega e Mina, se riuscite a immaginare qualcosa di simile (in alternativa: un mix tra Edie Brickell e Cristina Donà).

Ma per poco che valgano i paragoni assurdi, il disco (il terzo della serie) ha una freschezza invidiabile e un sound tanto semplice quanto efficace; merita sicuramente un ascolto.

Se vogliamo rimanere nell’ambito delle influenze dichiaratamente anglosassoni, abbiamo qui una tripletta di nomi che, pur spaziando in ambiti diversi, non hanno o quasi riferimenti nostrani. I più bravi sono i Grand Drifter, in pratica la one-man band di Andrea Calvo, piemontese, multistrumentista, con un’evidente passione per le atmosfere del folk rock intimista che ci ricorda tanto l’effimera epoca del N.A.M. di qualche anno fa, tra Kings of Convenience e Belle and Sebastian. Cantato in inglese (e questo ahimè lo penalizza non poco), suonato e rifinito con cura maniacale, con melodie purissime e semplici solo in apparenza, Paradise Window, anch’esso una terza prova, è un disco convincente.

È invece soprattutto sorprendente Dull Boy, esordio a nome The Whistling Heads. La band, che non vuole rivelare le sue origini, è il primo nome esclusivamente italiano che trae spudorata ispirazione dall’ondata post punk inglese degli ultimi anni, quella di Idles, Fontaines D.C. e Shame. Lo fa con grande convinzione e poca originalità; il disco è un ciclone, sound e impatto non hanno nulla da invidiare ai suddetti nomi, ma magari un po’ di personalità in più avrebbe fatto la differenza – vedremo se sapranno costruirsela col tempo.

Più esperti e rodati sono invece gli Human Colonies, che pur essendo solo al secondo disco sulla lunga distanza sono attivi da un decina d’anni. Kintsukuroi, che invece frequenta territori shoegaze in cui predomina l’uso delle chitarre ricche di effetti e di costruzioni di atmosfere variamente noise, ha un po’ lo stesso problema riscontrato nei Whistling Heads: fatto benissimo, interessante nei suoni e nella scrittura, ma non molto originale. Per gli amanti del genere, tuttavia (intendiamo fans di My Bloody Valentine e/o Slowdive), c’è più di un motivo per apprezzarlo.

Paradossalmente, le prove più originali di questa tornata arrivano dall’ambito elettronico, con due dischi estremamente riusciti, che potremmo definire di post-elettronica per la loro caratteristica di non adeguarsi a un genere di riferimento, bensì di superarlo e di dissolverlo in forme e suoni di difficile catalogazione. Grey Line è il secondo disco degli SPIME.IM, e andrebbe apprezzato soprattutto dal vivo per comprendere al meglio la cifra del collettivo torinese, che abbina alla musica performance e multimedialità per un’esperienza completa e immersiva. Musicalmente, l’album è un caleidoscopio stilistico che parte dallo stesso atteggiamento onnivoro di un Flying Lotus, ma che invece di risolversi in una sampladelia sfrenata sceglie un esito di minimalismo noise che incorpora pc music, atmosfere da club alieni, e sperimentalismi eterogenei in un limbo tra Autechre e Oneohtrix Point Never. Molto affascinante.

Ancora più strambo è I Will Destroy Everything I Love, disco che esce con la ragione sociale di Ranter’s Bay ma che è in realtà opera di Niet F-n, boss e factotum della label di super culto Kaczynski Editions. Le 9 canzoni dell’album sono tutte costruite da un loop di chitarra che è poi successivamente digitalizzato, trattato con effetti vari, incrementato con suoni digitali e field recordings, e occasionalmente accompagnato da voci. L’effetto è tanto straniante quanto seducente; certo non è un ascolto adatto a tutte le orecchie, ma l’inventiva e l’originalità di queste tracce è qualcosa che ha pochi termini di paragone (il più indicato potrebbe essere Oval, che pure si era divertito in passato a giocare con alcuni loop di chitarra). Comunque, un’altra dimostrazione che a volte le cose più interessanti arrivano dalle fonti più inaspettate.

Passiamo ora ad atmosfere più rilassate – queste sì, decisamente adatte ai cocktail estivi e forse adesso un po’ fuori stagione… I Bakivo sono un trio bolognese, con voce femminile, che si muove nell’easy listening da aperitivo divenuto un classico di questi ultimi anni, tra influenze di jazz e di musica brasiliana. Un genere inflazionatissimo, per il quale il rischio di risultare scontati è molto elevato; se Appunti di viaggio merita una menzione è perché riesce a sventare il rischio in virtù di una solidità esecutiva indubbia e di uno stile che non si piega al mood mellifluo delle produzioni peggiori del genere – buona in particolare la cantante, la cui voce grintosa ricorda molto Antonella Ruggero.

L’altra produzione da segnalare è invece l’omonimo debutto di Two Things Of Gold. Anche qui la voce è femminile (è quella di Francesca Sortino) mentre la parte strumentale (supervisionata da Diego Lombardo), in cui la componente jazz rimane fondamentale, abbandona la bossa nova e irrobustisce il sound con buone dosi di funk declinato in varie forme, dall’hip hop alla disco. L’effetto complessivo suona a tratti molto Steely Dan, altre volte richiama l’acid jazz di Galliano, e nel complesso mantiene una bella eleganza, anche se esordire con un album di oltre un’ora di durata è veramente chiedere troppo…

Per concludere, un ripescaggio doveroso anche se il disco in questione è uscito a inizio anno – purtroppo lo intercettiamo solo ora. Si tratta di Animal Mother delle O-Janà, un duo composto da Ludovica Manzo (voce) e Alessandra Bossa (tastiere ed elettronica). Mai come in questo gruppo istanze sperimentali e ascoltabilità riescono a convivere; malgrado le canzoni abbiano una struttura non convenzionale (a volte richiamano la scuola canterburiana, altre paiono esercizi di jazz, altre ancora pure composizioni di avanguardia minimalista), e che le melodie non siano quasi mai facilmente accessibili al primo ascolto, non si ha mai l’impressione di subire una complessità fine a se stessa. Al contrario, l’intreccio e la complementarità di queste artiste dà vita a un sound sicuramente originale ma comunque fruibile – avendo però la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo ad ogni ascolto. Probabilmente dal vivo le O-Janà saranno ancora più intriganti, considerando la loro predisposizione all’improvvisazione.

 

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