Il punto sul pop italiano 2023 (#2)

È finito il primo semestre, è ora di bilanci sul pop: da Daniela Pes a Lucio Corsi, dai Baustelle a Studio Murena

Daniela Pes
Daniela Pes
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Da qualche anno va abbastanza di moda parlar male del Tenco e snobbare la votazione delle Targhe, che tuttavia resiste imperitura riproponendosi a scadenza annuale. Cosa c’è che non va? Un’organizzazione forse non impeccabile, un comitato di notabili troppo chiuso e poco aperto all’innovazione, una reputazione non limpidissima nella gestione degli ultimi anni…

– Leggi anche: Il punto sul pop italiano 2023 (#1)

Certo, se diamo credito a queste voci, troveremo che la Targa per il miglior disco assegnata l’ennesima volta a Vinicio Capossela (lo abbiamo intervistato qui) sia in effetti una scelta di retroguardia.

Però, però: succede anche che i giurati del Tenco abbiano coraggio e apertura mentale sorprendente. Come già era avvenuto premiando Madame due anni fa, quest’anno la Targa per il migliore esordio va a un’altra autrice certo non canonizzata, anzi molto originale e di insospettata bravura: Daniela Pes, per il suo album Spira. Sarda, poco più di trent’anni, formazione classica da multistrumentista, arriva al suo primo disco con le idee molto chiare – aiutate peraltro dalla produzione del conterraneo Iosonouncane che ha plasmato un sound non così distante dal suo Ira del 2021.

Senso della canzone a braccetto con arrangiamenti sperimentali, atmosfere che stravolgono il folk atavico con inserti digitali iper-moderni, una collisione affascinante di strumenti acustici ed elettronici, Spira suona come se i Radiohead di Kid A avessero sostituito alla campagna inglese i paesaggi desolati della Gallura. Esordio portentoso e un nome da appuntarsi per il futuro; se resta all’altezza di questa prova, sarà presto un riferimento assoluto del panorama italiano.

Un nome che invece comincia a essere riconosciuto come una realtà consolidata è quello di Lucio Corsi. La gente che sogna è il suo terzo album (se non si conta quello che raccoglie i suoi primi due EP) e lo conferma come personaggio del tutto peculiare tra i cantautori nostrani: non arriveremo a dire che è il David Bowie italiano, ma certamente pochi possono maneggiare con tanta disinvoltura il glam senza apparire una pallida imitazione degli originali.

In questo disco è facile trovare echi evidenti di Ziggy o Bolan, ma c’è anche una notevole dose di personalità, per cui il sound rock di quell’epoca è mediato da una sensibilità melodica molto italiana, che rende le canzoni uniche nel loro genere; volendo azzardare un paragone impossibile, sembrano quasi un incrocio tra Ivan Graziani e il primo Momus. In definitiva, quello che si sente in La gente che sogna è un talento compositivo non usuale: il punto di forza di questo album sono proprio le canzoni.

Canzoni che invece sono esattamente il punto debole di Elvis, l’ultimo disco dei Baustelle. O forse dovremmo dire le solite canzoni, perché il problema di questa pubblicazione è che si fatica a percepire una qualsiasi evoluzione nello stile della band milanese. L’alternanza melodica tra le voci di Bianconi e Bastreghi, i fondali di tastiere belle sature, i tipici crescendo armonici: tutte cose che fanno ancora il loro effetto, ma sono fondamentalmente le stesse che sentivamo in Amen, 15 anni fa, malgrado la band annunci un suono più rock e americano.

Non scherziamo. I Baustelle soffrono il problema di quelle band che hanno uno stile talmente distintivo che ne divengono prigioniere: se il sound non è supportato da una scrittura eccelsa, la canzone suona come già sentita, non porta nulla di nuovo. Dopo oltre 25 anni di carriera, per il gruppo è giunto il momento di fare un salto di qualità se non vuole morire soffocato da se stesso.

Cambiamo genere e passiamo a quello che dovrebbe essere sulla carta un disco hip hop: si tratta di WadiruM, dello Studio Murena, collettivo milanese che pubblica qui la sua seconda prova. Chiariamo subito che definire questo album come hip hop è quanto di più riduttivo si possa immaginare: l’unico elemento che lo riconduce al genere è il cantato rap, che peraltro è forse l’elemento musicale meno convincente del sound della band (il flow è un po’ ingessato, con poco senso del funky, e alla fine risulta un po’ scolastico; basti confrontarlo con la performance di Danno, voce dei Colle der Fomento e guest in “Marionette”, per notare la differenza con un rapper di razza).

Per il resto, musicalmente WadiruM è un caleidoscopio di suoni e colori poco meno che straordinario: jazz, afrobeat, elettronica, un freestyle di idee inesauribile, ricchissimo di stimoli senza, oltre tutto, particolari concessioni melodiche. Una splendida anomalia dei nostri tempi, con la partecipazione di vari ospiti (da Ghemon a Paolo Fresu, da Arya a Enrico Gabrielli) e la prestigiosa produzione di Tommaso Colliva.

A proposito di Enrico Gabrielli, figuriamoci se non c’era modo di parlare di lui anche a questa tornata… stavolta però, l’evento è particolare: il suo primo disco solista. Pare incredibile che, dopo mille partecipazioni e collaborazioni con le band più rinomate d’Italia e non solo (Mariposa, Calibro 35, Afterhours, PJ Harvey… solo per citare i più noti, e non dimentichiamo la conduzione di una label straordinaria come la 19’40’’), Gabrielli non abbia mai inciso un disco a suo nome.

E ora che la cosa si materializza, il buon Enrico opta per una scelta quasi surreale: Le canzonine è un disco di canzoni per bambini, sulla linea tracciata molti anni fa da Sergio Endrigo (e in tempi più recenti anche dai They Might Be Giants). Quando si scherza, bisogna farlo molto sul serio; e quindi la parata di ospiti che partecipano al disco è illustrissima: Alessandro Fiori, Andrea Laszlo De Simone, Brunori Sas, I Cani, Cosmo, Francesco Bianconi, Giovanni Truppi, Roberto Dellera e molti altri. Con questo disco, Gabrielli si guadagna sul campo la medaglia di musicista più eclettico d’Italia – no contest. Menzione particolare va poi alla confezione in vinile, con un bellissimo booklet illustrato da disegni fatti dallo stesso autore.

Poche uscite di elettronica degne di nota in questo semestre, ma una segnalazione la merita IVXVI di Sacrobosco. Si tratta del produttore abruzzese Giacomo Giunchedi, che con questo album non inventa nulla ma crea un prodotto di eccellente qualità sia sul piano compositivo che su quello strettamente sonoro. Coordinate fondamentalmente nell’elettronica evoluta degli anni Novanta, a metà tra l’IDM melodica dei primi Autechre e la sampladelia sfrenata che a quei tempi muoveva i primi passi.

Con la tecnologia più sofisticata dei nostri giorni, l’assemblamento di suoni disparati è più coeso e armonico, e infatti l’album denota una fluidità notevolissima e rilascia un effetto di grande serenità.

E le chitarre? Non dimentichiamo le chitarre, perbacco. Il nostro suggerimento premia i Pitchtorch, band formata da elementi di Gutbuckets, Guano Padano e Vickers; cantano in inglese e questo album, I Can See The Light From Here, è il loro secondo. Il loro sound è un classico indie rock di impronta americana, che senza essere rivoluzionario è capace di cavalcate chitarristiche con progressioni di grande efficacia che potremmo collocare tra il Neil Young elettrico e i Wilco. Suonato impeccabilmente, registrato in presa diretta e prodotto benissimo, dovrebbe piacere a tutti i fan dell’indie più classico.

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