A stare senza Mark Hollis c'eravamo (quasi) abituati. D'altronde vent'anni di ostinato silenzio, punteggiati qua e là da fugaci riapparizioni e rarissime comparsate (su tutte quella in veste di produttore-musicista in Smiling & Waving di Anja Garbarek, con tanto di incontro ravvicinato con sua santità Robert Wyatt), non potevano alla lunga non essere presi per quello che erano: un lunghissimo e inequivocabile addio.
Mark Hollis: mi piace il silenzio
Un taglio netto. Definitivo. Mark Hollis che aveva guidato contromano per tutti gli anni Ottanta, Mark Hollis il genio pop della sottrazione, Mark Hollis l'uomo che non c'era più già da prima che i Talk Talk gli si sfaldassero tra le mani, dopo l'unico disco pubblicato a suo nome nel 1998, a completare la trilogia iniziata con Spirit of Eden (1988) e proseguita con Laughing Stock (1991), aveva tratto la più logica delle conclusioni, decidendo di tacere per sempre. Lo sapeva lui che non sarebbe mai più tornato, e poco alla volta lo avevamo capito anche noi.
Eppure un anno fa, alla notizia che il filo di seta che ancora ci legava al più antidivo degli antidivi si era spezzato, qualcosa dentro, da qualche parte tra la commozione e l'incredulità, è risuonato come una promessa mancata; la promessa che prima o poi ci sarebbe stato un dopo, che un giorno, chissà dove e chissà quando, avremmo letto di un imminente ritorno. Perché all'assenza ci si abitua, ma a certe assenze è difficile rassegnarsi.
All'assenza ci si abitua, ma a certe assenze è difficile rassegnarsi.
Quasi impossibile nel caso di Hollis. Irregolare e strano fin dagli inizi, quando i Talk Talk sembravano solo uno dei tanti gruppi plastificati (non fatemi scrivere new romantic, per favore) in cerca di spazio sull'affollata pista dei ruggenti Ottanta. Già allora però, in quel sorriso da ragazzo in gamba, in quelle orecchie troppo sporgenti sotto la cuffia nera, in quelle canzoni da piani altissimi delle classifiche, “It's my Life”, “Today”, “Such a Shame”, c'era qualcosa che non tornava, qualcosa di implicitamente diverso che sembrava venire da lontano, da prima del synth-pop e della new wave.
Solo una sensazione, all'inizio. Che si sarebbe fatta certezza con l'album numero tre, The Colour of Spring, che nel 1986, con “Life's What You Make It” e “Living in Another World” a segnare l'apice del successo e del consenso, avrebbe marcato un primo, deciso stacco.
I Talk Talk erano qualcosa di diverso, ormai era chiaro. L'incontro con Tim Friese-Greene, quarto membro ufficioso, produttore e coautore di tutti i brani con Hollis, aveva spalancato alla band le porte della percezione. Fuori dal coro. Per scelta convinta. Anche se nessuno all'epoca era pronto per lo spettacolare suicidio commerciale di Spirit of Eden.
"The world's turned upside down", sussurra la voce di Hollis all'inizio di “The Rainbow”, il primo dei sei lunghi brani che occupano le due facciate dell'album numero quattro. E il mondo si è davvero capovolto. La forma canzone è collassata su sé stessa, implosa. Il disco fluttua pigro in un'atmosfera rarefatta, si spinge fino ai margini del silenzio, del vuoto, in uno stato di trance allucinata e mistica, con la voce di Hollis a passeggiare dolente e invasata tra città di cristallo e paesaggi sinistramente crepuscolari; fino a quel "take my freedom for giving me a sacred love" che in coda a “Wealth” fa calare il sipario con ostentata lentezza su un tappeto alla Terry Riley.
Miles Davis, Robert Wyatt, Canterbury, Van Morrison, Scott Walker, Satie, Brian Eno, Harold Budd, l'armonica di Neil Young in “Furry Sings the Blues” di Joni Mitchell... Scampoli di pop sbiancati nel camerismo di un'avanguardia sognante, elegiaca, timbrica. Addio anni Ottanta. E addio Emi Records. Tra cause legali e colpi bassi. Ma senza rimpianti. Come dimostra Laughing Stock, anno di grazia 1991. Che si spinge ancora più in là nel mettere in discussione, senza mai rinnegarla del tutto, la forma canzone, aprendo la strada a una nuova generazione di esploratori (il post-rock e i Radiohead sono lì dietro l'angolo, a prendere appunti). Metafisica di una rivoluzione totale; radicale a tal punto da portarsi via anche i Talk Talk, sfibrati ormai dalle tensioni interne e dall'insostenibile pesantezza delle attese.
Servono sette anni a Hollis per mettere insieme i cocci e dare una forma “compiuta” a quello che avrebbe dovuto essere il disco numero sei (Mountains of the Moon: il titolo era già pronto). In copertina un cristologico agnello di pane; dentro, dopo 18 secondi di straziante, interminabile silenzio, otto scheletri di canzoni che fanno fatica a reggersi in piedi. La voce di Hollis e pochissimo altro. Un pianoforte meditabondo in “The Colour of Spring” (rimando diretto a un passato che ormai sembra lontanissimo); un'armonica e una tromba a squarciare il cielo della mistica “Watershed”; un palpito di clarinetto nella funerea “Inside Looking Out”; gli spettri accademici di “A Life (1895-1915)”; il canto che diventa respiro dell'anima in “Westward Bound”; l'ascesi biblica di “A New Jerusalem”: «I'm home again / But alone my child».
Fine del viaggio. Lo sapevi tu, lo abbiamo capito noi. Ma un anno dopo ancora non ci siamo rassegnati.