Domenica ai Giardini della Rocca di Bra, nel quadro dell’Artico festival, va in scena la “data zero” della tournée di Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, reduce dal kolossal discografico Ira, peraltro appena nominato nella cinquina dei finalisti al premio Tenco.
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In origine, nella primavera del 2020, l’uscita dell’album di Iosonouncane doveva essere anticipata da una serie di sette concerti che ne prevedeva l’esecuzione integrale: progetto ora posticipato ad aprile 2022, mentre negli show estivi la formula sarà diversa, tanto nell’organico (liofilizzato a trio) quanto nel repertorio (alcuni brani del nuovo lavoro accanto ad altri dei due precedenti e qualche inedito).
Abbiamo dialogato con Iosonouncane alla vigilia dell’appuntamento.
Il cambio di piano causato dalla pandemia ha influito sulla percezione di Ira?
«L’idea originaria era di un urto immediato e vigoroso: avendo in mano un disco da quasi due ore, con determinate caratteristiche sonore, non cantato in italiano e molto scuro, eseguirlo da cima a fondo prima che uscisse era un modo di sfidare il pubblico. Doveva essere l’unica forma di promozione: non volevo fare nient’altro che suonarlo dal vivo, ma come sappiamo questo non è stato possibile. Così abbiamo ripiegato su un percorso più tradizionale, per quanto io non faccia videoclip, conceda poche interviste e usi con molta parsimonia i social. Ovviamente ci siamo interrogati su come un disco simile potesse essere accolto nell’era della dispersione dell’ascolto: ero sicuro dell’impatto che avrebbe potuto avere se lo avessimo eseguito integralmente in teatro, ma anche consapevole che non ha le caratteristiche per macinare milioni di ascolti su Spotify. Detto questo, è stato accolto nel migliore dei modi e sta andando benissimo».
A suo modo è però un album anacronistico, posto com’è in antitesi all’ascolto parcellizzato: dobbiamo considerarti un “bastian contrario”?
«Ira è stato concepito, scritto e lavorato per essere ascoltato dall’inizio alla fine, ma anche per sezioni di brani, tipo i tre su ogni facciata nell’edizione in vinile, o in singole canzoni, ciascuna delle quali è autosufficiente. Se sono “bastian contrario”, è per riflesso del contesto in cui agisco da musicista: come in un piccolo paese, se fai una stranezza, tipo tagliarsi i capelli in modo diverso dagli altri, diventi subito quello “stravagante”».
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«Di album lunghi e complessi ne sono usciti ed escono tuttora tantissimi: penso a Have One on Me di Joanna Newsom, che dura venti minuti più di Ira, o alla densità di quelli di Julia Holter, Kamasi Washington e via dicendo. Il mio disco è lungo perché quello che volevo dire aveva necessità di spazio: se avessi ridotto il lavoro, sintetizzandolo in una quarantina di minuti, lo avrei penalizzato. È una specie di enormità inconoscibile che esprime un senso di perdita dei punti di riferimento: le sue dimensioni sono parte del contenuto».
«Ira una specie di enormità inconoscibile che esprime un senso di perdita dei punti di riferimento: le sue dimensioni sono parte del contenuto».
L’aspetto più appariscente è la “lingua momentanea” dei testi: da dove è arrivata?
«È venuta istintivamente con la scrittura delle melodie, che già ai tempi di Die creavo improvvisando con la voce, usata come uno strumento su traiettorie inafferrabili: sovente restano tali e quali anche nella versione finale. Seguendo questo metodo, utilizzo più spesso fonemi che parole di senso compiuto e questa volta mi sono ritrovato a rincorrere suoni che non mi erano familiari: in testa mi risuonava qualcosa tipo la mia voce in lontananza, mischiata in mezzo ad altre. Ho preservato queste prerogative e mi sono ritrovato così a utilizzare vocaboli di lingue forestiere, mescolate in maniera scorretta, che manifestano un senso di smarrimento, solitudine e disperazione. A quel punto sono andato in cerca di letture che mi potessero guidare o anche solo consolare, incappando in Finnegans Wake di Joyce e The Waste Land di T.S. Eliot».
Fra titoli icastici e figure ricorrenti, la narrazione ha un tono da Vecchio Testamento…
«In tutto quello che scrivo, da Die in poi, affiora istintivamente una sensazione da giorno del giudizio: dunque la suggestione biblica o arcaica c’è senz’altro».
«In tutto quello che scrivo, da Die in poi, affiora istintivamente una sensazione da giorno del giudizio».
«A me viene spontaneamente, ma è una caratteristica che si riscontra in molti narratori sardi, da Salvatore Satta a Marcello Fois: un sentimento da fine dei tempi».
Da cosa deriva questo pathos apocalittico?
«Dal paesaggio e dalla bassissima densità abitativa dell’isola: prevale una natura selvaggia, con la quale ci si confronta perciò costantemente. E poi ancora contano l’insularità del carattere di chi ci vive e la storia stessa della Sardegna. Ne deriva una sorta di tragica vitalità».
Anche in musica si percepisce una specie di patois, fra suoni del Maghreb, il jazz di Ellington e Coltrane, Robert Wyatt, i “cosmici” tedeschi, Radiohead e il resto che hai citato come fonte d’ispirazione. È il precipitato dei tuoi ascolti?
«Esattamente così. Quando ho fatto ascoltare per la prima volta Ira agli amici più stretti, la cosa che mi hanno detto è stata appunto: “Sono le idee sulle quali lavoravi già quando avevi vent’anni, all’epoca degli Adharma”. Certi dischi sono con me da sempre e a quelli, strada facendo, se ne sono aggiunti altri, mentre con l’esperienza aumenta la capacità di filtrarne i contenuti: la ricerca di una mia grammatica musicale parte da lì, mettendo insieme cose all’apparenza distanti. Senza trascurare l’importanza avuta dal lavoro di ensemble con musicisti dotati di caratteristiche specifiche, uno stimolo che mi ha spinto a creare in pochi mesi cinquanta volte la musica scritta fino a quel momento della mia vita: Ira ne contiene solo una piccola percentuale. E questo periodo di prolificità non è finito: sto continuando a scrivere a getto continuo».
Per lingua e sonorità, Ira potrebbe fare bene all’estero, non credi?
«Sui media sono uscite già parecchie cose, in Francia, Germania, Spagna, Inghilterra, Giappone e Stati Uniti, generalmente molto positive. Non è materiale da hit parade, evidentemente: per nulla canticchiabile, in una lingua meticcia e a tratti ostico nel suono. Qui in Italia, se non avessi fatto prima Die, sarebbe passato inosservato. E comunque sì, c’è attenzione anche oltre confine».