Mentre rigiro tra le mani la mia copia, immaginando un incipit efficace per raccontarvi questo libro, non riesco a non pensare a quanto sia “perfetta” l’elusività di titolo e grafica di copertina.
In un mondo editoriale in cui i testi che parlano di musica sono spesso affetti nell’aspetto esteriore da un claustrofobico didascalismo – anche nelle versioni più hipster e meno fan-oriented – infatti, l’astratto lirismo di Mi porta a casa questa curva strada di Ian Penman (Atlantide, 204 pp., 24€) è non solo una gradita eccezione, ma anche un perfetto biglietto da visita per presentare cos’è (ma soprattutto cosa non è) questo libro.
Il titolo (tratto da un verso di W.H. Auden) e l’elegante serie di cerchi concentrici del progetto grafico (l’edizione originale inglese non ha nemmeno quelli) astraggono bene l’idea dei solchi di un disco e anche quella del percorso dal pubblico all’intimo che ciascuno può provare di fronte a una canzone con cui si stabilisce un rapporto speciale.
Mi accorgo che un incipit efficace non l’ho trovato, ma intanto siamo già ben oltre le 10 righe e quindi non serve più e possiamo andare dritti al sodo: Ian Penman – che cognome meraviglioso per uno scrittore! – è da una quarantina d’anni uno dei critici musicali inglesi più rilevanti, e la differenza la fa essenzialmente il fatto che scrive da Dio, indipendentemente dall’oggetto della sua attenzione.
Scrive da Dio perché, come un po’ tutti i migliori autori, sa bene che quello che rileva non è tanto scrivere “della” musica, ma piuttosto scrivere di “come” e “cosa” la musica (e le vicende personali degli artisti) innesca nel processo di ascolto e di affection. Qui accade con argomenti eterogenei come i Mod e Frank Sinatra, Charlie Parker e Donald Fagen, Elvis o John Fahey, Prince o James Brown.
Raccogliendo una serie di saggi pubblicati su City Journal e sulla London Review Of Books – alcuni sono chiaramente costruiti attorno all’esigenza recensoria di volumi su questo o quel musicista – Penman riesce in modo eccellente a mescolare narrazione, analisi e contesto, in pagine illuminate da immagini folgoranti (quelle su Elvis ad esempio, «trattato come una specie di virus Ebola del Mississippi in calzoni a sigaretta con [...] il confine tracciato tra il nord e il sud del suo corpo spasmodico, una linea Mason-Dixon profilattica attorno ai passanti della cintura») e da riferimenti al pensiero critico del Secondo Novecento.
Un libro che non solo si distanzia qualitativamente da quello che in media si legge in giro sulla musica (laddove anche quando si voglia evitare il tranello agiografico traspare comunque una certa “ansia da prestazione” placata da eccessi di virtuosismo eclettico), ma che si colloca proprio in uno spazio assai più rilevante, dove il letterario trova in un ambito culturale come quello della popular music la materia perfetta per tornare a casa, per strade curve e ricche di incontri, ma sempre significative. Bellissimo.