Grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione – purtroppo – non è eccellente.
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A esprimere adeguatamente in musica lo spirito del tempo continua a essere soprattutto la metà meno bellicosa dell’umanità, come dimostra il seguente elenco alfabetico a prevalenza femminile…
1. Arooj Aftab, Night Reign, Verve
Reduce dal Grammy Award conferito al precedente Vulture Prince, l’artista pakistana si ripete ad alto livello immergendosi nella notte, sua principale fonte d’ispirazione, ed enfatizzando l’inflessione jazz, senza recidere tuttavia i legami con la terra di origine, rappresentata dai versi dei poeti ghazal che costituiscono la trama narrativa dell’opera.
2. Francesca Bono, Crumpled Canvas, We Were Never Being Boring
Debutto individuale per la musicista bolognese, già negli Ofeliadorme e in duo con Vittoria Burattini, che ritroviamo qui accanto all’altro Massimo Volume Egle Sommacal e all’amico australiano Mick Harvey. Canzoni d’autore anglofone ad alta intensità emotiva, architettate con raffinatezza di tratto dipingendo note su tele stropicciate.
3. Ezra Collective, Dance, No One’s Watching, Partisan
Al terzo album in carriera, il quintetto londinese di jazz cosmopolita – fenomenale sul palco: a novembre ha infiammato addirittura la Wembley Arena! – raggiunge il proprio apice discografico, di cui è biglietto da visita il groove perfetto di “God Gave Me Feet for Dancing”: serissima candidata al titolo di migliore canzone dell’anno.
4. Mabe Fratti, Sentir Que No Abes, Unheard Of Hope
Alla quarta prova da solista, l’artista nativa del Guatemala si candida quale degna erede di Arthur Russell. Dice di lei Héctor Tosta, suo partner artistico nell’impresa: “Suona il violoncello come un demone e canta come un angelo”. Il risultato è un disco che ondeggia con disinvoltura fra “alto” e “basso”, alternando spigoli vivi e rotondità ammalianti.
5. Beth Gibbons, Lives Outgrown, Domino
Alla soglia dei 60 anni, la cantante dei Portishead traccia un bilancio esistenziale indugiando su “maternità, ansia, menopausa e mortalità”: “il fardello della vita” cui è intestato uno dei dieci brani inclusi nell'album. Al tour de force emotivo corrisponde un mosaico di fonti sonore stravaganti, accenti esotici, archi da classica contemporanea e vibrazioni jazz nei fiati.
6. Khruangbin, A la Sala, Dead Oceans
Persiste un alone di mistero nel culto che circonda il trio texano, artefice di musiche – in genere senza parole – asincrone con quanto accade intorno. Dipende forse dal suo collocarsi altrove in senso cronologico e geografico, tra suggestioni rétro ed esotismo “globalista”. Non fa eccezione l’ultimo lavoro, che perfeziona la formula esposta nei tre precedenti.
7. Cindy Lee, Diamond Jubilee, Realistik Studios
Il caso musicale dell’anno: in origine disponibile liberamente su YouTube e solo dal febbraio prossimo reperibile in forma di oggetto mercantile. È il punto culminante del progetto en travesti del canadese Patrick Flegel, la cui abnorme visione del pop si condensa in una trentina di canzoni sospese fuori dal tempo, come in una fantasmagoria.
8. Jessica Pratt, Here the Pitch,City Slang
Muovendosi con grazia fra l’edonismo sinfonico dei Beach Boys, gli echi folk di Laurel Canyon e “il lato oscuro del Sogno Californiano”, in stile Mulholland Drive, la 37enne cantautrice statunitense confeziona un album impeccabile negli arrangiamenti, ispirato nella scrittura e ammaliante nell’esecuzione, tipo una versione meno pretenziosa di Lana Del Rey.
9. Nala Sinephro, Endlessness (Warp)
A tre anni da Space 1.8, la compositrice belga di ascendenza martinicana ne ripropone gli umori “ambient jazz” usando con parsimonia l’arpa, suo strumento elettivo, per affidarsi ai sintetizzatori modulari, accordati alla frequenza “mistica” dei 432 Hz, cui si sovrappongono fraseggi d’archi e guizzi di sassofono. Una suite apprezzata anche dal vivo a C2C.
10. The Smile, Wall of Eyes/Cutouts (XL)
Due dischi in poco più di otto mesi, frutto delle medesime sedute di registrazione, Wall of Eyes e Cutouts: un grado di parentela affine a quello fra Kid A e Amnesiac. Stimolati dal batterista jazz Tom Skinner, Jonny Greenwood e Thom Yorke si distanziano progressivamente dal canone Radiohead, comunicando una sensazione di libertà e leggerezza maggiori rispetto alle prove recenti della casa madre.