Waxahatchee
Out in the Storm
Merge
Japanese Breakfast
Soft Sounds from Another Planet
Dead Oceans
Noi le chiameremmo “cantautrici”, essendo donne che scrivono ed eseguono canzoni, ma oltreoceano – da dove provengono – non ci capirebbero. Esponenti del sottobosco indipendente under 30, divergono in senso stilistico e tuttavia sono accomunabili non solo per la pubblicazione concomitante dei rispettivi album nuovi. Che cosa le unisce? Da un lato un approccio originale ai canoni definiti in quell’ambito durante l’ultimo trentennio, dall’altro il fatto di aver debuttato nei ranghi di una band, salvo poi emanciparsene. Katie Crutchfield, che ha scelto di farsi chiamare da solista con il nome di un fiumiciattolo della nativa Alabama, si riferisce in maniera piuttosto trasparente a certo rock femminile in voga nei primi anni Novanta, diciamo tra Breeders e Sleater-Kinney. Sensazione potenziata, in questo lavoro, quarto in carriera per Waxahatchee, dalla produzione di John Agnello, impegnato in passato al fianco di Sonic Youth e Dinosaur Jr., fra i tanti.
Out in the Storm ripercorre la fine di una relazione amorosa e lo fa senza troppa malinconia, con vigore anzi, dall’urgenza iniziale di “Never Been Wrong” al contagioso giro di basso che traina l’impetuosa “Hear You”. Non mancano momenti più riflessivi, in ballate d’impronta acustica come la solenne “Sparks Fly” o la toccante “Recite Remorse”, ma è il carico di energia elettrica – ascoltare l’impulso quasi metal di “Silver” per capacitarsene – a conferire identità all’insieme.
Al confronto, Michelle Zauner / Japanese Breakfast– che nello pseudonimo allude al proprio ascendente asiatico (ha sangue coreano nelle vene) – si mostra discreta nei toni. Non meno schietta, però. Avendo dovuto affrontare un lutto (la morte della madre), del quale si percepiva l’eco già nel precedente Psychopomp, ha cercato un modo per elaborarlo ed è finita – chissà mai perché – nello spazio. Il brano incaricato di fare da battistrada, “Machinist”, racconta con garbo pari alla stravaganza l’improbabile love story fra una donna e un robot, ricorrendo a tecnologie – sintetizzatore e Auto-Tune per la voce – coerenti con la messinscena.
Non è comunque un episodio tale da indirizzare il corso del disco, poiché sonorità vagamente simili ricorrono soltanto in “Diving Woman”, in apertura di sequenza, e nell’ombroso valzer che dà titolo alla raccolta. Il resto si allinea su un trattamento “alternativo” di formule consolidate: la canzone pop dal gusto Sixties (nella deliziosa “Boyish”) oppure il sempreverde country (“This House”). Maggiormente eclettico rispetto all’unico predecessore, Soft Sounds from Another Planet è almeno altrettanto naïf nell’ispirazione: dote che a tratti rende irresistibile il fascino di Japanese Breakfast.