Gioia e rivoluzione: 4 dischi per ripartire (dal futuro)

Il mondo del jazz è in ginocchio, ma – forse – la musica lo salverà

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Dettaglio della copertina del nuovo disco di Chicago Underground Quartet
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Gioia e rivoluzione. Anche se i tempi sono quello che sono, e i legami sembrano allentarsi, le comunità disperdersi e la militanza farsi sempre più una questione di mera (e a volte impossibile) resistenza. O forse proprio perché i tempi sono quelli che sono, e anche il jazz – nelle sue infinite e sparpagliate declinazioni – sta disperatamente cercando nuove forme di presa sulla realtà.  

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Che non possono certo limitarsi ai concerti in streaming, alle video-lezioni (per chi ha la fortuna magari di avere una cattedra o qualche volenteroso scolaro), agli appelli destinati a rimbalzare nella famigerata e sempre più claustrofobica bolla, allo spontaneismo (caciarone) e alla pietosa mano di Bandcamp (et similia).

Quel che è certo è che il piccolo mondo del jazz (in Italia ma non solo) si è scoperto fragile e totalmente indifeso di fronte al più imprevedibile e catastrofico degli eventi.

E quindi? Da dove e come provare a ripartire? Difficile dirlo. Anche perché a domandarselo c'è l'intero pianeta, alle prese con uno sconquasso senza precedenti e con problemi ben più drammatici e pressanti. Quel che è certo è che il piccolo mondo del jazz (in Italia ma non solo) si è scoperto fragile e totalmente indifeso di fronte al più imprevedibile e catastrofico degli eventi. Anni di precaria sopravvivenza, di palese inadeguatezza (strutturale ma anche culturale, diciamolo), di marginalità (nella marginalità del sistema musica) stanno fatalmente presentando il conto. Il rischio, una volta passata la buriana, è che non restino neanche le proverbiali macerie sulle quali ricostruire un'ipotesi sostenibile di futuro. Quanti festival perderemo per strada? Quante rassegne? Quanti locali abbasseranno la saracinesca? Che ne sarà di finanziamenti pubblici e sponsorizzazioni? Risposte nessuna, al momento. Nemmeno sui tempi e sui modi di un ritorno alla normalità (leggasi concerti) che vede il mondo della cultura e dello spettacolo ultimissimo della lunga fila di questuanti. Insomma, c'è poco da stare allegri: saranno mazzate di fuoco in un quadro di ridimensionamento collettivo che restringerà di parecchio i margini di manovra e scaverà un solco ancora più profondo tra i pochi in grado di farcela e i molti costretti ad arrangiarsi.

Il rischio, una volta passata la buriana, è che non restino neanche le proverbiali macerie sulle quali ricostruire un'ipotesi sostenibile di futuro.

Per fortuna la musica non si è fermata in questi strani giorni di tempo sospeso, e dall'alto di una serie di dischi usciti quasi in contemporanea sembra riaffermare la propria centralità in un frangente in cui l'attenzione è tutta rivolta ad aspetti di ordine pratico-organizzativo. Musica necessaria, urgente, inclusiva; musica spalancata sul mondo, fatta di relazioni, di intenzioni esplicite, politica nel senso più vero e sociale del termine.

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Perché c'è bisogno di musica che torni a ragionare e a parlare al plurale, a immaginarsi e a costruirsi un pubblico, a occuparsi di ciò che la circonda, che abbia una visione, che esca dalle camerette e dai circolini che l'hanno condannata all'irrilevanza e ripensi con coraggio il proprio ruolo all'interno delle (nuove?) comunità di ascoltatori. La sfida è complessa, d'accordo. Ma se ripensamento dovrà essere (e ripensamento sarà: non ci si scappa), che non ci si dimentichi della musica.

Chicago Underground Quartet – Good Days (Astral Spirits)

Un'infinità di mutazioni, una quindicina di dischi (senza mettere nel conto quelli dello spin-off São Paulo) e un viaggio che dura da più di due decenni. Lunga vita al Chicago Underground di Rob Mazurek e Chad Taylor, che torna a palesarsi sotto forma di quartetto (l'ultima volta nel 2001) con il fido Jeff Parker alla chitarra e Josh Johnson alle tastiere. Il risultato, pubblicato sotto l'egida delle benemerita Astral Spirits, è come al solito entusiasmante per impatto, freschezza e qualità dell'ispirazione. Otto tracce, zero cedimenti: dall'iniziale “Orgasm” di Alan Shorter, ripescata da uno strabiliante Verve della fine dei Sessanta con Charlie Haden, Rashied Ali e Gato Barbieri, all'ipnotica “Strange Wing”; dagli esotismi funky dell'irresistibile “Batida”, al Don Cherry evocato dalla piccolo trumpet di Mazurek nell'estatica “All the Bells”; dall'Africa immaginata dalle percussioni e dalla batteria di Taylor in “Lomé”, alla bellicosa “Westview”, forse il punto più alto dell'intera scaletta. Centro pieno. Un altro.

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Irreversible Entanglements – Who Sent You? (International Anthem)

Ritorno atteso e benedetto quello degli Irreversible Entanglements, chiamati a una sonante conferma dopo il fulminante esordio di tre anni fa. Il bis dell'omonima opera prima esce di nuovo per International Anthem e schiera la medesima formazione: Keir Neuringer al sax contralto, Aquiles Navarro alla tromba, Luke Stewart al contrabbasso, Tcheser Holmes alla batteria e Camae Ayewa (aka Moor Mother) nelle vesti di autrice e voce recitante. Dove eravamo rimasti? Ce lo ricordano con un calcio negli stinchi i sette minuti e mezzo dell'incendiaria “The Code Noir/Amina”, cavalcata fire-free che appartiene di diritto alla New York di Albert Ayler, Archie Shepp, William Parker e Amiri Baraka. “At what point do we stand up?”, chiede del pulpito la sacerdotessa Ayewa, puntando il dito contro gli indifferenti e gli stolti di ogni latitudine. Messi alla gogna anche nel quarto d'ora della monumentale “Who Sent You?”, che si dibatte e si contorce fino a trovare l'agognata pace in una nenia africaneggiante che sa di ritorno alla terra madre. Seconda metà del disco nel segno del basso implacabile di Stewart, protagonista assoluto nella micidiale “No más” e nella pulsante “Bread Out of Stone”. Rabbia, lucidità, urgenza, sostanza: l'antidoto perfetto allo spiritual jazz ammaestrato che infesta le playlist della gente che piace.

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Heroes Are Gang Leaders – Artificial Happiness Button (Ropeadope)

Stesso basso implacabile, quello di Luke Stewart, e medesimo piglio fire-jazz per un altro ritorno da applausi, quello del collettivo Heroes Are Gang Leaders, fondato e guidato dal poeta, scrittore e fotografo Thomas Sayers Ellis e dal sassofonista James Brandon Lewis, dietro la scrivania per gran parte delle composizioni e degli arrangiamenti (ma c'è anche parecchio di improvvisato). Al loro fianco, oltre alla batteria del fidatissimo Warren G. Crudup (che con Stewart è l'asse portante del trio e del quintetto di Brandon Lewis), e alla consueta, danzante brigata di performer, autori e cantanti, due ospiti di lusso come William Parker (contrabbasso) e Jamie Branch (tromba). Per un disco che rimanendo fedele all'ispirazione originaria della band (da Max Roach ai Public Enemy passando per Archie Shepp, Sun Ra, il nume tutelare Amiri Baraka, l'Art Ensemble, Sly, George Clinton e The Last Poets), si muove in direzioni inedite e inaspettate. Lambendo i confini del “post” nella robotica “Hurt Cult”, ad esempio; o non vergognandosi di azzardare nella scomposta e imprendibile “Internet Kill Switch”. Anche se i passaggi più riusciti sono quelli in cui il collettivo gira a pieno regime. Come in “Mista Sippy”, ritaglio di anni Settanta al retrogusto di blaxploitation; o come in “The Day We Gave the Globes Back”, travolgente funky-anthem che deraglia fino a frantumarsi in uno spettacolare collage di suoni e di voci. Dite una parola e anche voi sarete salvati.

James Brandon Lewis & Chad Taylor – Live in Willisau (Intakt)

Di nuovo James Brandon Lewis e di nuovo Chad Taylor, immortalati nel settembre del 2019 sul palco del festival svizzero di Willisau; sassofono (tenore in questo caso) e batteria, a riproporre un'accoppiata che da quelle parti ha fatto la storia. Anthony Braxton e Archie Shepp con Max Roach, Dewey Redman con Ed Blackwell, Arthur Rhames con Rashied Ali: esibizioni indimenticabili per dischi memorabili (The Long March di Shepp e Roach, uscito per la Hat Hut, dovrebbe diventare testo obbligatorio per qualsiasi aspirante improvvisatore). Sulle spalle dei giganti, insomma, con il santino di Coltrane in bella vista sul comodino (l'iniziale “Twenty Four” sembra arrivare dritta dritta da Interstellar Space, mentre “Radiance” si dipana a partire dal tema di “Seraphic Light”). Ma non di solo Coltrane vive il duo: “Come Sunday” di Duke Ellington è il veicolo ideale per la mbira di Taylor e per un'inaspettata carezza; “Watakushi no sekai” di Mal Waldron danza maestosa sulle rive dell'Hudson con il fantasma di Ayler; “Willisee” di Dewey Redman salda i conti con il genius loci trascinata dal drumming portentoso di Taylor e dagli strappi R&B del sax tenore. “Keep the legacy alive!”, grida al pubblico Brandon Lewis in chiusura di serata: non facciamo morire di inedia quello che di meraviglioso abbiamo ereditato.

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