A chi chiedeva chi fosse il musicista più influente del pop italiano ho quasi sempre risposto senza esitazioni Franco Battiato, che da qualche tempo è anche la mia risposta alla domanda “qual è il tuo cantautore preferito?”. Ora che Battiato è morto, a 76 anni, dopo una lunga fase di riservato ritiro dalle scene seguita a un incidente e – ragionevolmente – a un aggravarsi delle sue condizioni di salute, possiamo serenamente esporci e affermare che sia stato il più grande.
Certo la musica pop non è una gara e questo tipo di affermazioni a effetto – specie in mortem – lascia un po’ il tempo che trova. Eppure ci sono delle ragioni per sostenerlo, ragioni che intrecciano in maniera inscindibile i fili della storia culturale (o almeno, della storia culturale della nostra canzone) e quelli di decenni di ascolti privati, di autoradio notturne, di canzoni cantate a squarciagola nelle docce e nelle discoteche di mezza Italia.
Battiato ha attraversato più di mezzo secolo di musica pop, dal beat inciso sui flexi-disc della Nuova Enigmistica Tascabile alla metà dei sessanta, ancora a nome Francesco Battiato, alle complesse opere liriche dedicati al pantheon sumero, dalle cerebrali sperimentazioni sui primi sintetizzatori alle orchestre d’archi, ai videoclip su TMC2. Rispetto a quella dei colleghi e coetanei, la musica di Battiato è invecchiata benissimo. O meglio, è forse apparsa vintage per qualche minuto negli anni novanta-primi duemila, ma è stata poi incorporata in un canone nostalgico che è oggi il suono del pop di buona parte del pianeta, dai The Giornalisti a Dua Lipa.
Battiato (e i suoi collaboratori: Angelo Carrara, Francesco Messina, Giusto Pio…) hanno creato questo suono per l’Italia. I dischi di Battiato suonavano da dio quando sono usciti, e suonano da dio ancora oggi. Molti classici dell’ultima parte del Novecento sono invecchiati nel sound: riascoltatevi oggi Anime salve, o lo stesso Creuza de mä, e avrete l’impressione di sentire musica del secolo scorso. Con La voce del padrone questo non succede, ma non succede nemmeno con capolavori forse meno celebrati ma altrettanto decisivi per l'arte fonografica nel nostro Paese, come Gommalacca – senza dubbio l’ultimo grande album (cronologicamente parlando) prodotto da Battiato.
Ricordo Gommalacca come il disco della mia adolescenza, che ascoltai dal vivo al mio primo concerto di Franco Battiato, a Torino alla fine degli anni novanta. Mi piaceva da matti all’epoca, da ragazzino un po’ snob verso la musica che ascoltavano i miei compagni di ginnasio, che Battiato fosse còlto ma anche un po’ fricchettone. Che citasse nomi fascinosi, che le sue canzoni sembrassero dei racconti pieni di indizi da decifrare: la storia di Shackleton, gli aborigeni d’Australia, Kundalini... per limitarsi al solo Gommalacca.
Ma allo stesso tempo Battiato era anche un musicista pop, e ai suoi concerti si ballava e si cantava. Nelle discoteche di provincia che avrei frequentato pochi anni dopo, verso il mattino, il DJ nostalgico metteva sempre “Centro di gravità permanente”, che era naturalmente filtrata anche presso un certo pubblico della techno. Nei primi duemila "Il ballo del potere" era uno standard dei Murazzi torinesi.
Questo accostamento alto-basso, còlto-pop, ha sempre accompagnato Battiato e quasi sempre è stato citato come l’elemento caratteristico del suo essere musicista. È così, ma credo che si sia manifestato in lui in maniera anomala e originale. I cantautori italiani – prendiamo la categoria così com’è per praticità, pur accettando anche qui l’anomalia Battiato – si sono raccontati in vari modi: come degli intellettuali, come dei poeti, come la voce degli ultimi o degli sconfitti (assunta però quasi sempre da una prospettiva privilegiata). Oppure, al contrario, come dei semplici artigiani – a sminuire, per strategia o per ritegno, uno statuto pubblico che li voleva invece “forti, invincibili, imbattibili, incorruttibili” (come da canzone di Edoardo Bennato).
Battiato è stato un ascoltato intellettuale pubblico, ma il tipo di messaggio che ha trasmesso ha sempre danzato tra l’arroganza mistica di chi sembrava aver capito tutto del mondo e la sensazione che, in fondo in fondo, ci stesse un po’ perculando.
Battiato è stato un ascoltato intellettuale pubblico, ma il tipo di messaggio che ha trasmesso ha sempre danzato sottilmente tra il discorso serio e l’ironia, tra l’arroganza mistica di chi sembrava aver capito tutto del mondo e la sensazione che, in fondo in fondo, ci stesse un po’ perculando quando diceva di sentirsi come un cammello in una grondaia, o di vagare per i campi del Tennessee (come vi era arrivato? Chissà).
“Capire Battiato”, come cantavano i Bluvertigo, è sempre stato un problema per chi cercava di farlo – ovvero per noi tutti fan di Battiato a un certo punto della nostra vita. I proverbiali fiumi di inchiostro spesi per tracciare le complesse radici filosofiche dei suoi testi hanno perlopiù tralasciato che quei testi ci giungevano come prodotto pop, addirittura ultra-pop in molti casi. Il Battiato del periodo Sgalambro (quello di dischi come L'ombrello e la macchina da cucire o L’imboscata) era un meccanismo abilmente costruito per farci pensare che quelle canzoni stessero effettivamente offrendoci uno squarcio filosofico di verità sul mondo, anche perché implicavano nel testo un filosofo “vero”, per quanto anche Sgalambro…
…ma in fondo erano “solo” canzoni. Dispositivi pensati per il nostro intrattenimento, per coinvolgerci, per ammaliarci. E ce la facevano alla grande, ad ammaliarci, proprio fingendo di essere dei piccoli trattati sul senso della vita. Chiunque volesse capire Battiato a partire dalla sua esplosione nel mainstream, ovvero dalla trilogia pop “perfetta” L’era del cinghiale bianco – Patriots – La voce del padrone (che è in realtà una tetralogia a cui andrebbe aggiunto l’ingiustamente sottovalutato L’arca di Noè) dovrebbe forse però farsi venire qualche legittimo dubbio.
E si torna a quella usurata opposizione tra “alto” e “basso” che tanto piace a noi teorici della cultura pop. Che in Battiato ci giunge già frullata in forma di pastiche, come quando si permette di inserire un frammento del Tannhaüser per poi passare a prendere in giro “l’impero della musica” e quegli “scemi che si muovono” a cui lui stesso appartiene, o quando intitola un brano “Frammenti” limitandosi, appunto, a mettere dei frammenti di cose che tutti noi conosciamo a memoria.
Battiato che balla nei video quando i cantautori dovevano stare seduti. Battiato che fa le canzoni nostalgiche degli anni cinquanta (i sax da vecchio rock’n’roll che punteggiano la tetralogia, i “Cuccuruccucù Paloma”) mettendoci però il suono new wave più alla moda. (A proposito: solo una deformazione tutta italiana ci fa pensare a Battiato nella categoria dei cantautori, quando per un lungo pezzo della sua storia è stato un musicista new wave).
Pochi cantautori hanno avuto l’ardire di prendere in giro il loro pubblico.
Quelle canzoni ci bombardano di messaggi, di citazioni a effetto da riportare a penna nella smemoranda (per i millennials) o sui social (per i millennials invecchiati) ma ci stanno anche prendendo in giro. Pochi cantautori (ci sono ricascato…) hanno avuto l’ardire di prendere in giro i propri ascoltatori.
Lucio Dalla – altra grande anomalia – era ugualmente pop, era ugualmente attento di arrivare al grande pubblico, ma lo faceva con lo spirito di chi al pubblico tende una mano, raccontandone le storie (“Anna e Marco”, “Futura”…) e per così dire scendendo al suo livello. Battiato fa pop dal suo piedistallo, dalla sua “pedana” tra “fumi e raggi laser”, e non sembra fare nulla per andare incontro a chi lo adora, costringendolo anzi a sottoporsi a umilianti tentativi di esegesi. Destinati, inevitabilmente, a fallire.
Credo che il piacere dell’ascolto sia tutto lì, in fondo: forse uno può desiderare che il suo guru conosca tutte le risposte e abbia capito il senso della vita, ma il pop funziona in modo diverso. Per questo ho sempre pensato che “Povera patria” sia una bellissima canzone ma una pessima canzone di Battiato. Così volgare nel puntare il dito contro un nemico universale – la politica corrotta – e così priva di livelli multipli, di ironia... O del dubbio dell’ironia, che è diverso dall’ironia ma che è un meccanismo fantastico attraverso cui le canzoni funzionano. Sarà vero quello che dice il cantante? C’è qualcosa da scoprire in questa canzone? O forse possiamo semplicemente ascoltare, ballare, cantare?
Perché rimane e per sempre rimarrà – grazie a dio – il dubbio che il postmoderno Battiato ci stia solo prendendo in giro. Che non ci sia un messaggio da trovare, e che ci sia solo da ascoltare e provare piacere nel farlo.
Che cosa resterà di me, del transito terrestre?
Di tutte le impressioni che ho preso in questa vita?