Pochi musicisti come Nick Cave hanno saputo costruire una così fitta rete – direi – paratestuale intorno alla propria opera. Sostenuto da una comunità globale di fan appassionati, Cave a un certo punto della sua carriera poteva diventare una macchietta nostalgica dei suoi anni migliori (secondo me ha rischiato di farlo negli anni del pur discreto Dig, Lazarus Dig!!!); oppure – come altri cantautori laureati, ad esempio Tom Waits – scegliere di sottrarsi ai riflettori e accumulare credito nell’assenza dalla scena pubblica, per rilasciarlo in poche e selezionate occasioni.
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La terza via – quella forse più rischiosa – è quella che ci si trova a raccontare oggi, con la trilogia che lo ha riconfermato ai suoi livelli migliori, cominciata nel 2013 con Push the Sky Away, proseguita con Skeleton Tree e conclusa (ma sarà poi conclusa?) con lo struggente Ghosteen dell’anno scorso. Intorno, Cave ha accumulato molta altra musica (le colonne sonore con Warren Ellis, il principale protagonista acustico di questa fase); si è offerto generosamente per documentari o simil-documentari (20,000 Days on Earth del 2014, One More Time with Feeling del 2016, incentrato sul lutto per la drammatica morte di uno dei suoi figli), per un film-concerto in solitaria in tempo di Covid (anche divenuto disco: Idiot Prayer — Nick Cave Alone at Alexandra Palace); ha composto un libro-diario interamente scritto a mano sui sacchetti per il vomito degli aerei durante un tour americano (The Sick Bag Song, 2015)...
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E, ancora, ha messo in piedi quello che è probabilmente il progetto più affascinante: il babelico blog Red Right Hand Files, in cui risponde a qualunque domanda dei fan («You can ask me anything») con storie e aneddoti ora esilaranti, ora profondi (proprio da qui è partita la storia della fallita richiesta di un pianoforte Fazioli, che ha garantito un po’ di buzz qualche mese fa).
Affolla ancora di più il quadro il libro Stranger than Kindness, appena tradotto in italiano dal Saggiatore, in origine catalogo della mostra con lo stesso titolo che si è tenuta Kongelige Bibliotek di Copenaghen dal 23 marzo al 3 ottobre scorso, ideata dallo stesso Cave con Christina Back. Stranger than Kindness raccoglie, oltre a un saggio di Darcey Steinke, quella che da tradizione dei musei del rock potremmo definire una selezione di “memorabilia”. Ma che, trattandosi di Nick Cave, sono memorabilia bizzarri e dotati di un fascino piuttosto inquietante.
«Ciò che vedete in questo libro vive nel mondo caotico che si forma intorno alle canzoni e nel quale le canzoni albergano. Sono i materiali che nutrono e danno alla luce l’opera ufficiale», spiega il musicista nell’introduzione. «Questi oggetti non vanno considerati opere d’arte, ma piuttosto la sovrastruttura stralunata e incontrollabile che sorregge nel suo farsi la canzone, il libro, il copione o lo spartito».
E dunque, spazio a dizionari e bibbie commentate, dattiloscritti di canzoni, disegni fatti con il sangue (sic), lettere d’amore ad Anita Lane (collaboratrice dei primi Bad Seeds e compagna di Cave in quel periodo), foto assortite, taccuini, collage con soggetti sacri… ma anche reperti raccattati ai mercatini, come scatole con capelli femminili (sic), statuette kitsch, crocefissi, una borsa marchiata Kylie Minogue…
Più che la raccolta di oggetti di un musicista, siamo a metà strada tra una Wunderkammer e la scatola dei tesori di un bambino; una collezione che – in effetti – ha il fascino che hanno gli oggetti ritrovati nei mercatini delle pulci, in quel breve istante in cui li si raccoglie e ci si interroga sulla vita delle persone che li hanno usati e conservati. Qui la persona è Nick Cave, che assegna a ogni reperto un ricordo, una suggestione, e che sempre di più, con grande consapevolezza, sta rendendo se stesso, la sua vita, la vera “opera d’arte” da osservare.
La parte più cospicua e interessante della raccolta è quella che racconta gli anni a Berlino Ovest. C’è una scena del bel documentario B-Movie: Lust & Sound in West-Berlin 1979-1989, dedicato alla vita di uno dei padri della techno berlinese, Mark Reeder, in cui Cave apre le porte della sua stanza al “protagonista”, armato di Super8. È una delle anguste stanzette da squatter in cui visse in quegli anni contorti, si direbbe non la stessa che si vede nella foto d’apertura di questo articolo, e che era oggetto di ricostruzione nella mostra danese. Cave – formalissimo, in giacca e cravatta – fa entrare il suo ospite. «Questa è la mia stanza», dice. «Questa è la mia camera da letto», spiega spostando la tenda che nasconde il lettino, «la mia collezione di dipinti gotici tedeschi», sopra il letto. Poi, come se fosse la cosa più normale del mondo: «la mia pistola», e afferra un grosso revolver dalla scrivania.
Ecco, l’effetto che fa sfogliare questa bizzarra raccolta di pezzi della vita di Nick Cave è lo stesso: a metà tra la eeriness (con tutto quello che si perde nella traduzione di “inquietudine”) e il surreale, tra il gioco e il serio, tra una lettera d'amore e una pistola – chissà poi se vera o falsa.