Faust uomo di oggi

Intervista ad Andrea Liberovici per il suo Faust’s Box, in scena a Genova dal 30 novembre

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Faust’s Box, il nuovo lavoro di teatro musicale di Andrea Liberovici approda al Teatro Duse di Genova – dal 30 novembre al 4 dicembre – dopo aver debuttato alla Philharmonie di Parigi il 17 settembre scorso. Strutturato in tredici scene, questo spettacolo rivisita il mito di Faust attraverso una sorta di viaggio transdisciplinare avvalendosi della cantante e attrice newyorkese Helga Davis, protagonista dell’ultima edizione di Einstein on the Beach di Philip Glass e Bob Wilson, quest’ultimo coinvolto direttamente in questa produzione quale “voce” dell’ombra di Faust. Philippe Nahon – già punto di riferimento per i lavori musicali di Peter Brook – dirige, per la prima volta in Italia, l’ensemble francese Ars Nova Ensemble Instrumental in questa coproduzione che coinvolge Teatro del Suono, TAP Théậtre Auditorium de Poiters e Teatro Stabile di Genova.

Ad Andrea Liberovici – reduce dal recente Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2016 come migliore autore di musiche per il Macbeth Remix – abbiamo posto qualche domanda per cercare di capire i caratteri di questo suo nuovo lavoro.

Il mito di Faust ha sedotto parecchi compositori – da Schumann a Gounod, da Listz a Berlioz, da Stravinskij a Busoni, solo per citarne alcuni – mantenendo intatto il proprio fascino. Qual è l’aspetto di questa figura che ha trovato maggiormente stimolante?

«In realtà ci sono due aspetti che hanno innescato, nel 2005, questa folle idea di mettermi a lavorare su una figura così gigantesca della cultura europea. Il primo è la storia“leggendaria” che narra di un certo Doktor Johannes Faustus realmente vissuto a Praga verso la fine del Cinquecento. La cosa che mi ha attratto è che il Dottore viene ricordato come medico e gran ciarlatano. Il ciarlatano, come sappiamo, per esser credibile deve innanzitutto saper mentire bene a se stesso e, visto che ne stiamo ancora parlando dopo 500 anni, vuol dire che quest’opera di auto illusionismo è stata realizzata in modo eccelso».

«Il secondo elemento è l’intuizione che sottende e attraversa tutti gli Studi sul Faust di Lukàcs riferiti al Faust goethiano in cui, in estrema sintesi, interpreta il potere corruttivo di Mefistofele nei confronti di Faust come una sorta di transizione simbolica fra un “mondo valoriale antico“ (Faust) e la modernità agli albori tutta “oro e piacere sessuale” (Mefistofele). Questi due elementi mi hanno suggerito molte domande fra cui una dominante: in quest’epoca post-moderna, a “corruzione” ampiamente avvenuta, chi è Faust? Lo spettacolo tenta d’indagare all’interno di questa domanda attraverso una vera e propria riflessione. Un grande specchio sospeso al centro della scena è l’unico interlocutore del nostro protagonista: né Faust, né Mefistofele, forse entrambi, certamente un essere umano alla ricerca della sua voce originale e quindi unica. Non fa un viaggio nel mondo, ma un viaggio immobile nel suo mondo. Mondo profondamente corrotto dalla moltiplicazione del suo ego riflesso, in una sorta di presente sospeso senza passato, con una promessa di gioia in un futuro illusorio. L’auto illusionismo di cui sopra. Una via di fuga e di trasformazione però è possibile e si rivela solo nel finale, come da tradizione. E si rivela attraverso un gesto teatrale, di confronto diretto col pubblico. Perché il teatro, secondo me, è l’ultimo baluardo contro la propaganda essendo realmente sociale al contrario del suo placebo social».

Per questo lavoro di teatro musicale quali sono state le principali fonti di ispirazione?

«C’è un suggerimento di Bertolt Brecht che mi ha sempre guidato, come una bussola, nel mio lavoro: “Non costruire sul buon tempo passato, ma su quello cattivo di oggi”. Che cosa sono i 507 generi musicali segnalati da Wikipedia, dal Gregoriano al Medieval Metal, se non un arcipelago di isole identitarie in cui spesso – per fortuna non sempre – ci si crogiola in rassicuranti e frigide saturazioni linguistiche composte da grammatiche che parlano di grammatiche? E questa parcellizzazione nasce realmente da un esigenza del “pubblico“ o è solo l’espressione di un cattivo tempo presente in cui l’unica ideologia rimasta è quella del mercato? Secondo me è la seconda risposta e rispetto a questa logica di mercato applicata alle arti mi sono sempre sentito inadeguato. Per cui le fonti di ispirazione cerco di trovarle, non tanto all’interno di un luogo musicale d’appartenenza, ma in zone, come dire, extraterritoriali rispetto alla musica. Nella poesia o nello spazio scenico che di volta in volta immagino. Mauricio Kagel è stato maestro indiscusso di questa prassi».

«Per fare un esempio concreto, uno degli elementi di questo Faust è appunto il box in cui vive. Una sorta di monolocale dove le due straordinarie percussioniste suonano, oltre alle percussioni canoniche, anche frullatori, pentole, vasi di fiori, porte che si aprono e chiudono e così via, come una sorta di inneschi acustici a flussi inaspettati di memoria di Faust/Mefisto. Inneschi narrativi che avviano e giocano di contrappunto con l’elettronica, con il canto del protagonista e dell’ensemble strumentale. Per tornare al Maestro di tutti i Faust, Goethe ha definito le scene del suo capolavoro (fra le tante definizioni che ne ha dato) come una serie di ballate popolari chiuse in se stesse, adottando poi all’interno di ogni singola ballata, differenti modalità di scrittura (cosiddetta “alta”, “bassa”, eccetera). Questo approccio tipico di alcuni classici e del teatro, che nulla ha a che fare col collage di citazioni post-moderno ma bensì con la costante ri-scrittura rivolta a parlare all’uomo della propria contemporaneità, è l’unico insegnamento estetico che riconosco come tale e che desidero imparare e approfondire anche con questo lavoro».

Quali sono i caratteri compositivi e di linguaggio (teatrale/visivo e musicale) sui quali si è basato per questo lavoro?

«Le “nuove tecnologie”sono parte integrante di questo progetto e della mia ricerca e modalità cosiddetta transdisciplinare di scrittura, nel senso che tendenzialmente scrivo, sempre partendo dal suono e dalla sua organizzazione, in modo quasi sincronico: musica, testo, video, elettronica e movimenti attoriali segnati in partitura. Quello che non amo di questi nuovi “elettrodomestici” è che vengano travestiti da modelli culturali. Una lavatrice è una lavatrice non mi sognerei mai di mettermi in coda alle 6 del mattino per comprarne una nuova sperando che la sua nuova modalità di lavarmi i calzini sarà causa di felicità. Cosa voglio dire? Voglio dire che mi sembra, a proposito del ciarlatano di cui sopra, che deleghiamo tutti, chi più e chi meno e io ovviamente non mi tiro fuori, il nostro immaginario e la nostra necessità di relazioni umane a un mondo virtualmente illusorio, ed è proprio questa la dannazione del nostro protagonista. La tragicommedia immobile dell’immaginario di un uomo solo… nel suo box».

Ampliando il discorso, secondo lei un compositore di teatro musicale oggi a quale pubblico si rivolge?

«Credo abbia presente quelle enormi isole di spazzatura, grandi quasi come continenti, al largo degli oceani. Gigantesche distese di bottiglie e sacchetti di plastica uno sull’altro a cancellare il mare. Ma il mare esiste, non si vede ma esiste, è lì sotto e malgrado tutto sopravvive. E sopravvive, non soltanto per la profondità e le dimensioni ma anche perché c’è una vita marina che ha imparato, per non morire, a nutrirsi di rifiuti. Il teatro musicale, almeno per me, è un ottimo disintossicante quando mi sento intossicato e un ottimo nutrimento quando ho fame. Per cui non immagino un pubblico specifico ma mi auguro sempre che sia un pubblico affamato».

La foto in apertura è di Arthur Pequin

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