Diciamo la verità: fin qui il 2020 non è stato il migliore degli anni possibili. Costretti a rintanarci in casa per colpa della più spaventosa pandemia dai tempi della spagnola, separati dai nostri simili, minacciati da un nemico antico e invisibile, abbiamo forzatamente riscoperto una condizione di impotenza e di fragilità che sembrava appartenere ai secoli passati. Ai giorni in cui il filo che legava ciascun essere umano all'esistenza era molto, molto più sottile. Guerre, alluvioni, pestilenze, carestie: il grande libro della storia in fondo non è altro che il romanzo della nostra precarietà.
Diciamo la verità: fin qui il 2020 non è stato il migliore degli anni possibili.
Una precarietà che nell'America della più spaventosa crisi economica di tutti i tempi, a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento, è stata raccontata in decine e decine di canzoni. Dal blues al country, passando per le infinite declinazioni della musica popolare, le “disaster song” (e dintorni) sono state la colonna sonora della grande depressione.
Un meta-genere del quale si sono fatti interpreti autori celebrati e cavalieri oscuri, anonimi menestrelli e cantastorie vagabondi. Che all'interno di comunità sottoposte a violenti processi di sradicamento, aggrappate disperatamente a una memoria collettiva costruita e tramandata per lo più oralmente, hanno svolto la millenaria funzione di testimoni, custodi e narratori. Certo, facendo leva sulla morbosa attrazione per il macabro dell'ascoltatore da tendone, da fiera di paese (in fondo si tratta pur sempre di catturare, di intrattenere), ma incarnando alla perfezione lo spirito di un tempo in cui marginalità e miseria sono state il pane quotidiano per milioni di americani.
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Ascoltare per credere: 10 canzoni (più una), 10 disaster song memorabili. E se alla fine il 2020 non vi sembrerà un po' più sopportabile, riavvolgete il nastro e ricominciate da capo.
1. Elder Curry – "Memphis Flu" (1930)
Per dovere di cronaca, e per assonanza con il presente, non si può non iniziare il viaggio da un'epidemia di influenza. A essere colpita è la città di Memphis e a raccontare il flagello, accompagnato dalla sua congregazione di fedeli, è il reverendo-chitarrista Elder Curry. Il tono è quello accorato di un gospel in crescendo, con tutti i luoghi comuni del caso: la mano del Signore che si stende sui peccatori, l'invito a pentirsi per evitare il terribile castigo, il virus che se ne frega di Nord e Sud, di Est e Ovest, di ricchi e poveri, di medici e infermieri. «It Is God mighty hand / He Is judging this old land», cantano in coro il predicatore e la sua gente. Febbre alta, ginocchia deboli, dolori alle ossa: pochi giorni e sei nella fossa.
2. Victoria Spivey – "Dirty T.B. Blues" (1929)
Dall'influenza alla tubercolosi. Cantata da Jimmie Rodgers, che di TBC è morto a soli 35 anni, da Lead Belly, Lonnie Johnson, Champion Jack Dupree, Sonny Boy Williamson e tanti altri. Compresa Victoria Spivey, signora del blues dalla lunghissima carriera che qui è accompagnata dalla band del trombettista Henry Red Allen in un'incisione prodotta dalla Victor. Il lamento è quello di una giovane donna sul letto di morte, tra rimpianti e rimorsi per una vita breve e dissoluta. «I can't keep from crying / Left alone while I'm dying». La malattia come castigo, l'ineluttabilità del fato, la madre e gli amici lontani, la solitudine e le forze che vengono meno: più blues di così...
3. Robert Hicks – "Mississippi Heavy Water Blues" (1927)
Dalle infezioni ai disastri naturali. L'alluvione cantata da Robert Hicks, nome di battesimo di Barbecue Bob, una delle prime stelle del catalogo Columbia, è quella del '27, la più catastrofica della storia americana (2700 miglia quadrate finite sott'acqua). La stessa che due anni dopo ispirerà la leggendaria “High Water Everywhere” di Charley Patton, uno dei testi sacri del blues del Delta (e non solo). «I'm sitting here looking at all of this mud / And my girl got washed away in that Mississippi flood». La dodici corde di Barbecue Bob, tra passaggi in punta di slide e contrappunti magistrali, versa calde lacrime per l'amata forse travolta dalla piena, anelando singhiozzante alle carezze dell'adorata «sweet mama». Nota biografica: Robert Hicks morirà nel 1931, a soli 29 anni, indovinate di cosa? Sì, di tubercolosi.
4. Asa Martin & James Roberts – "Ryecone Cyclone" (1932)
Sopravvissuti all'esondazione del Mississippi? Che ne dite di un bel tornado? E mica un tornando qualsiasi: il più mortale della storia della Virginia. La data: 2 maggio 1929. Una scuola spazzata via, un insegnante e 12 bambini uccisi dalla furia del ciclone, un altro centinaio feriti. Dietro il microfono Asa Martin e James Roberts, che per la Conqueror fissano su nastro una ballatona country a due voci (chitarra e mandolino) zuppa di nostalgia per l'infanzia perduta (in tutti i sensi) oltre che di pioggia. «Oh listen today and a story I'll tell / In sadness and tear rimmed eyes / Of a dreadful cyclone that came this way / And blew our schoolhouse away».
5. Charley Patton – "Dry Well Blues" (1930)
Pioggia, inondazioni, alluvioni e... siccità. La più temuta delle piaghe per il Sud del cotone e dell'agricoltura intensiva. La voce e la chitarra sono quelle di sua maestà Charley Patton, il re del Delta, accompagnato dal fedelissimo Willie Brown. A soffrire terribilmente la sete, tra il '29 e il '30, sono gran parte degli Stati del Sud e del Midwest, che di lì a poco si sarebbero trovati a fare i conti con le tempeste di sabbia e di vento dei famigerati “Dust Bowl Years” (gli stessi raccontati da Steinbeck in Furore). «I ain't got no money and I sure ain't got no hope», urla Patton rivolgendosi a un Dio sordo e distante. Il lamento atavico di un popolo smarrito.
6. Bessie Smith – "Boweavil Blues" (1924)
Siccità fa rima con “boll weevil”, il parassita del cotone che alla fine dell'Ottocento, risalendo dal Messico, si abbatte come un flagello di bibliche proporzioni sulle piantagioni del Sud. Diventando uno degli ospiti fissi delle “disaster song” fino agli anni Cinquanta (e oltre) grazie alle infinite variazioni sul tema dei vari Blind Willie McTell, Charley Patton, Woody Guthrie, Lead Belly (con Alan Lomax), Eddie Cochran, Harry Belafonte e Pete Seeger. Bessie Smith registra la sua nel 1924, reinterpretando per la Columbia una canzone scritta e già incisa da Ma Rainey. Il tema più che agricolo è squisitamente sentimentale, con l'insetto che diventa la metafora del mondo ostile e dei maschi sfruttatori.
7. Blind Alfred Reed – "Explosion in the Fairmount Mine" (1927)
Vita infame quella del bracciante, ma non è che ai minatori andasse meglio. Nel dicembre del 1907 il disastro di Monongah, in West Virginia, costò la vita a 362 operai. Blind Alfred Reed, tra i convocati dalla Victor per le mitiche Bristol Sessions del '27 (con la Carter Family e Jimmie Rodgers), e autore di “How Can a Poor Man Stand Such Times and Live?”, uno dei primi e più celebri esempi di “protest song” (da Ry Cooder a Bruce Springsteen, ci hanno messo dentro le mani in tanti), torna sul luogo della sciagura a distanza di vent'anni, eternando in musica il ricordo di un trauma che ha lasciato una cicatrice profonda nella memoria collettiva del Sud lavoratore. Sono i primi vagiti di una coscienza di classe che nel corso degli anni Trenta si farà più coesa e battagliera.
8. Blind Willie Johnson – "God Moves on the Water" (1930)
Disgrazie minerarie, incidenti ferroviari, aerei e stradali, il crollo di argini e dighe, naufragi e affondamenti: il campionario cronachistico delle “disaster song” è vasto, vastissimo. Ma nessuna tragedia ha suscitato l'interesse di cantori e menestrelli più di quella del Titanic. «Year of nineteen hundred and twelve / April the fourteenth day / Great Titanic struck an iceberg / People had to run and pray». Dio si muove sulle acque, ci ricorda Blind Willie Johnson, citando la Genesi e invocando il Cristo consolatore. L'incalzante fingerpicking e la voce rauca, la cui linea è doppiata in più di un passaggio da fluide volute di slide, sono semplicemente da brividi. Tra blues e gospel, il realismo del racconto trascende nel metafisico, finendo per farsi portatore di un messaggio di salvezza universale. Tre minuti, un capolavoro.
9. Carolina Twins – "Off to the War I'm Going" (1928)
Che parata di flagelli sarebbe senza la guerra? È il 1928 quando i Carolina Twins, Dave Fletcher e Gwen Foster (che gemelli lo sono soltanto dal punto di vista musicale), decidono di riesumare per la Victor un'antica ballata che arriva dritta dritta dai tempi delle schioppettate tra nordisti e confederati. Il testo non è che sia particolarmente profondo e complesso, così come non lo sono il canto a due voci e l'arrangiamento chitarra-armonica che fa tanto western anni Cinquanta. Per due volte però, a metà del brano e prima del sipario, fa capolino una piccola variazione yodel che sembra spalancare le porte all'epoca d'oro del country. «It's off to war I'm going / Goodbye, sweetheart, goodbye».
10. Charley Jordan – "Starvation Blues" (1931)
Dalle cause agli effetti. La miseria dilaga e la fame bussa impietosa alla porta degli ultimi. «Lord, Lord / starvation is at my door». L'America post-'29 racconta da Charley Jordan, bluesman della scuderia Vocalion che qui sembra preparare il terreno alla venuta del profeta Robert Johnson, è la terra della disperazione e della povertà dilagante: i campi sono aridi e bruciati dal sole, il livello dei fiumi è sceso paurosamente, donne disperate si aggirano in cerca di qualcosa da mangiare, la gente è costretta a rovistare tra i rifiuti pur di mettere qualcosa sotto i denti. Non resta che attendere la liberazione del riposo eterno.
BONUS. Skip James – "Hard Time Killing Floor Blues" (1931)
Il più blues di tutti i blues per chiudere doverosamente il cerchio. Dal ventre profondo e violato dell'America rurale, nel nome degli esclusi e dei reietti, di chi ha perso tutto, degli oppressi, degli emarginati e degli sfollati, la voce dell'angelo del Delta Skip James si leva come un canto di preghiera e di speranza. Inafferrabile, straziante, celeste. «Hard times is here and everywhere you go / Times are harder than ever been before». Siamo nel pieno della grande depressione e lo stesso James, dopo avere registrato una ventina di brani per la Paramount (ce ne sono arrivati 18, anche se il diretto interessato raccontava di averne incisi 26), sarà costretto ad appendere la chitarra al proverbiale chiodo fino al 1964, anno in cui sarà rintracciato da John Fahey e compagni nell'ospedale di Tunica, nel cuore del Mississippi. Preludio a un ritorno sulle scene da maestro che gli avrebbe restituito, almeno in parte, quello che il più grande disastro della storia americana gli aveva tolto.