La vicenda ormai è nota: nella puntata dello scorso 16 settembre del Volo del mattino, su Radio Deejay, Fabio Volo ha commentato il video di “7 Rings” di Ariana Grande, dandole sostanzialmente della scostumata (eufemismo).
Si potrebbe anche obiettare che Fabio Volo non è un modello di fine intellettuale tale da suscitare polemiche di questo genere; così come qualcuno ci ha tenuto per forza a sottolineare come Ariana Grande non rappresenti l’ideale modello di artista femminista e consapevole (fino all’abuso del cliché, trito e ritrito, della pop chick controllata dalla crudele industria discografica).
Sono considerazioni che fingono di non vedere il problema – anche a voler omettere il fatto che le castronerie sostenute da un personaggio pubblico, per quanto criticabile come Fabio Volo, su una delle principali radio nazionali in una delle fasce orarie più ascoltate, hanno un peso, eccome. Ma, indipendentemente dagli attori in ballo, e come mostra anche la recente polemica sul body shaming esplosa al Festival di Salisburgo intorno alla soprano Kathryn Lewek e ai commenti sessisti di Die Welt, chi si occupa di popular music (e di pop culture) sa quanto narrazioni di questo tipo non possano essere liquidate a episodi, ma rivelino qualcosa di profondo.
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Proviamo allora a fare ordine nella vicenda, e a riflettere sulla vicenda Fabio Volo – Ariana Grande a freddo, oltre lo sfogo e la battutina brillante da social.
Dal frammento del Volo del mattino pubblicato in evidenza sul sito web di Radio Deejay – quello che salta subito in cima cercando su Google, e quello che è stato ampiamente commentato e rilanciato su tutti social – sembra in realtà che quella di Fabio Volo sia una considerazione estemporanea: uno scivolone, pur grave, ma di pochi minuti. In realtà l’invettiva occupa l’intera puntata e, com’è abitudine del Volo scrittore, mette insieme tutto e il contrario di tutto, tirando in ballo pure Jean-Paul Sartre e Tomasi di Lampedusa.
Il risultato è una gran confusione. L’unica cosa chiara è che l’autore, alla puntata di lancio della nuova stagione, vuole fare «talk radio»: ben vengano le telefonate di chi non è d’accordo, se in questo modo ci si sente autorizzati a dire qualunque cosa. D’altronde, dell’opinione della donna che gli siede accanto in studio, Volo sembra di poter fare tranquillamente a meno: Viola Afrifa interviene più volte, fa osservazioni di buon senso e prova a non farle passare proprio tutte, le sparate del collega, ma invano.
Dell’opinione della donna che gli siede accanto in studio, Volo sembra di poter fare tranquillamente a meno: Viola Afrifa interviene più volte, ma invano.
Nella tesi di Volo si possono distinguere due diverse argomentazioni, che tuttavia si sorreggono a vicenda. La prima è la posizione del maschio, disorientato davanti alla donna, alla sua mera presenza nel campo visivo dell’uomo; la seconda è la posizione del padre, disorientato davanti ai «tempi nuovi» di questa società degenerata. Nella prima categoria ricade la considerazione sulle donne che sono «come fiori: in base ai colori e ai profumi attirano un certo tipo di uomini […] se ti vesti [come Ariana Grande nel video] attiri solo gente che ti vuole sdraiare».
«Se ti vesti [come Ariana Grande nel video] attiri solo gente che ti vuole sdraiare».
E questo è solo un assaggio: anche se il video di Ariana Grande non è diverso da molti altri a cui siamo abituati, l’indignazione di Volo tocca vette altissime. Viene il sospetto vada fatta risalire proprio ai due versi che spiegano il titolo della canzone, pronunciati sulle note di “Favorite Things” (il fatto che, nell’immaginario collettivo, dietro Ariana Grande riecheggi suor Maria di Tutti insieme appassionatamente, circondata da bambini, connette in modo inaspettato il ruolo della donna di oggi a quello della donna di allora, ed è soltanto ragione di ulteriore sorriso):
“Wear a ring, but ain’t gon’ be no Mrs
Bought matching diamonds for six of my bitches”
(“Porto un anello ma non sono la donna di nessuno
ho comprato sei diamanti uguali per sei delle mie amiche”)
Nel video Ariana Grande balla con le sue amiche, è una festa di sole donne; il testo è pronunciato da una donna che può fare a meno dell’uomo, e non ha neppure bisogno di dirglielo: la sua canzone non è rivolta a lui, non lo riguarda.
Non c’è bisogno di scomodare Paul Gilroy per capire che qui c’è tutto il portato dell’hip-hop come racconto di emancipazione sociale: è la voce di chi è uscito dai quartieri di edilizia popolare per afroamericani e si copre di patacconi d’oro. I versi “Whoever said money can’t solve your problems / Must not have had enough money to solve ’em” (“Chiunque abbia detto che i soldi non fanno la felicità / non aveva abbastanza soldi per essere felice”) sono abbastanza materialisti da parlare a chi sa che avere o non avere soldi può fare la differenza.
Però l’accusa di sessismo, maschilismo e immoralità, rivolta oggi a trap e hip hop come un tempo era rivolta a blues e metal, qui non regge. Non solo perché a parlare è una donna (la rivelazione è che le donne esistono anche nell’industria culturale, e sanno rispondere con lo stesso linguaggio degli uomini, come insegna Cardi B), ma anche perché nel testo non c’è niente di sessuale, e questa scelta viene mantenuta nel video, almeno nella misura in cui non compare mai nessun uomo.
Eppure Volo chiama in causa “Delusa” di Vasco Rossi, con il verso “Guarda che se c’è il lupo rischi tu”. Non è questa la sede per discutere se il testo di una canzone del 1993 sia o meno un’apologia della cosiddetta rape culture: quello che è certo è che Volo la riprende in questo senso, per dire sostanzialmente che le vittime di stupro magari se la sono andata anche un po’ a cercare.
Volo riprende “Delusa” per dire sostanzialmente che le vittime di stupro magari se la sono andata anche un po’ a cercare.
Negli interventi successivi sembra ripensarci: «Sono io il mostro, sono io che proietto quell’immagine» sulla cantante (e proietta al punto che ci vede un uomo inesistente, a cui lei «accarezz[erebbe] i pettorali»). Ma subito aggiunge: «Sono malato». Che è da intendersi: “io, uomo nella società di oggi”. Insomma, alla fine gli uomini sono vittime di questa situazione almeno quanto le donne, i cui corpi, così mercificati, seducono, tentano e traggono in fallo.
Così, oltre che di chi ha suscitato in lui tutti questi pensieri impuri («Se la dovessi incontrare da single…»), Volo può mostrarsi come vittima pure della reazione – prevedibile e legittima – alle proprie osservazioni: nella puntata del giorno successivo il conduttore ha risposto alle critiche e parlato di shit storm mediatico. Ha detto che capisce le vittime di bullismo che commettono suicidio (commenti che lo fanno assurgere a vero modello per le giovani generazioni, altro che Ariana Grande), e ringrazia di avere gli «strumenti» per metabolizzare le accuse. Al posto della parola “strumenti”, si potrebbe dire che è abbastanza famoso da potersi difendere via radio davanti alla nazione, chiedendo scusa soltanto «ai fan» e non alla diretta interessata, come se il bresciano attributo di «putanun» non fosse toccato a lei. Da parte di Ariana Grande non c’è stata per il momento alcuna reazione, anche se la notizia è già in circolazione sulle pagine social dei fan club di contesto anglofono.
Volo ha chiesto scusa soltanto «ai fan» e non alla diretta interessata, come se il bresciano attributo di «putanun» non fosse toccato a lei.
D’altronde, anche se Volo fa finta di non conoscerne il nome («Arianna Grande… Irene Grande…»), stiamo parlando di una musicista che a febbraio ha vinto un Grammy e i cui concerti, già due anni fa, mobilitavano abbastanza persone da essere l’obiettivo di un attentato terroristico. Ma il punto è proprio questo: per Volo Ariana Grande è «una ragazzina … sembra che abbia 15 anni» – ne ha 26, ma la ripetuta correzione di Afrifa cade ripetutamente nel vuoto.
Ed ecco la posizione del padre: Volo parla «da vecchio», si rivolge agli ascoltatori come a dei figli («siamo una famiglia») e ad Afrifa – che gli fa notare che c’è stata la rivoluzione sessuale, e che è un bene se le donne possono sentirsi libere fare le proprie scelte, anche di «essere un oggetto sessuale» – risponde che «il problema è l’età»: anche lui si accorge che Ariana non parla agli uomini, ma «alle decenni», alle adolescenti pronte a ripetere quello che vedono perché non lo capiscono. Allo stesso modo, non hanno capito tutti quelli che lo hanno attaccato sui social («io volevo far del bene»): per lui siamo tutti bambini senza supervisione, senza «strumenti», in un kantiano stato di minorità.
L’argomentazione della degenerazione dei costumi («Orietta Berti non si tirava fuori una tetta per cantare “Finché la barca va”») non è nuova, soprattutto nella storia culturale, e scivola nel cliché dei giovinastri «col chiodo» (sic). La tentazione del “da che pulpito” è fortissima: persino Daniela Santanchè sulla sua pagina Facebook ha fatto notare che «il Fabio Volo che esprime questi illuminati ed eleganti giudizi su una giovane donna è lo stesso che è diventato famoso perché faceva le interviste nudo ad Alessia Marcuzzi». Che poi lo dica a partire da un articolo di Libero, che quando c’è di mezzo una donna non è esattamente la voce più pacata e liberale, aggiunge solo l’ipocrisia sua a quella di Fabio Volo.
Questo giudizio morale sulla condotta dei ggiovani consente di sovrapporre sesso e violenza: la degenerazione riguarda tanto i vestiti delle cantanti quanto le sparatorie in tv. Qui il riferimento è l’uomo ragno (?), mentre Amarcord di Fellini serve a Volo per dire che è la disponibilità delle donne a far perdere l’innocenza ai bambini, incutendo in loro il senso di colpa. Ci siamo: ormai l’obiettivo è «salvare la società». «Scendiamo in campo», dice ironicamente: il problema non sono «le barche» (grazie a dio), bensì i padri «di schiena», incapaci di ascoltare il grido di abbandono delle figlie («tu hai la responsabilità di insegnarmi ad amare!»).
Quindi il problema sono i padri. O meglio: il problema è che «dovrebbe essere illegale». Che cosa, non si sa (vendere musica usando il corpo delle donne, vestirsi di rosa, mettersi a pecorina…?), ma questo non impedisce di cogliere il messaggio di fondo, secondo il quale l’uomo non è meno vittima: «Tu sei al lavoro e ti introiano la figlia». E ancora: «La società mi sta imputtanando le figlie» (che sono sempre “sue”, anche se non ne ha). Il punto centrale di tutto il ragionamento è il «senso di impotenza davanti a questi tempi nuovi, che dà frustrazione»: c’è l’illusione di «poter scegliere [e] controllare tutto», ma in realtà «non controlliamo nemmeno noi stessi», i nostri impulsi.
«La società mi sta imputtanando le figlie».
Volo così intercetta il senso di smarrimento del mondo maschile: uno smarrimento estremamente pericoloso, di cui sono le donne a pagare le spese. Il me too viene menzionato solo un paio di volte, nell’accusa e nella replica, ma tacitamente incombe sull’intero discorso: per Volo è giusto che le donne si difendano, ma allora non possiamo insegnar loro che va bene fare come Ariana Grande, perché «se c’è il lupo», appunto, sono loro a rischiare. In realtà, ora come ora, sul lavoro come nella vita, è sempre possibile chiedere alle donne di essere disponibili, di mettere il loro corpo a disposizione – della demografia, del datore di lavoro, di chi le vede passare in un luogo pubblico. Nello show business, che vive di immagine, rappresentazione ed estetica, la cosa è soltanto più evidente, e il movimento di denuncia e di protesta, questa volta, è partito da lì.
Volo così intercetta il senso di smarrimento del mondo maschile: uno smarrimento estremamente pericoloso, di cui sono le donne a pagare le spese.
Il punto è che questo senso di smarrimento andrebbe descritto in termini di crisi dell’intera società e fatto risalire al capitalismo, come sostiene certo femminismo recente e piuttosto accorto: nella tesi 7 del Manifesto delle femministe per il 99%, si sostiene che i fenomeni di oscurantismo cui assistiamo su scala globale (tra i quali a questo punto va inserito anche Fabio Volo, subito dietro Simone Pillon e il critico di Die Welt) sono una reazione ai processi che hanno portato il capitalismo ad assimilare le istanze di emancipazione sessuale degli anni Sessanta, riducendole a stili di vita e pratiche di consumo, per una più estesa mercificazione della sessualità su scala di massa.
Insomma, il sesso vende, anche se Fabio Volo fa finta di accorgersene solo adesso. Peccato non si renda conto anche del fatto che, se a questo si risponde con la morale e con la legge, si è parte del problema.