Caterina Barbieri, la Biennale nell'ignoto (senza paura)

Intervista alla nuova direttrice di Biennale Musica, Caterina Barbieri

Caterina Barbieri
Foto di G. Gatsas
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Alla fine, la tanto attesa nomina alla Direzione del prossimo biennio di Biennale Musica è arrivata. E ha spiazzato molti, forse quasi tutti.

Alla fine, la tanto attesa nomina alla Direzione del prossimo biennio di Biennale Musica è arrivata. E ha spiazzato molti, forse quasi tutti.

Nelle settimane precedenti i gossip si erano rincorsi, al termine di un quadriennio sotto la guida di Lucia Ronchetti, al cui ultimo festival (ne abbiamo scritto qui e qui) si vociferava che la scelta potesse ricadere su una figura davvero “aliena” come Giovanni Lindo Ferretti (che, dicono i bene informati, ha invece declinato il gentile invito).

Nell’apparente stallo della situazione - e coerentemente alla discontinuità con il passato che un po’ ci si attendeva dalla nuova Presidenza - Pietrangelo Buttafuoco ha giocato un jolly non da poco, con la nomina di Caterina Barbieri, giovane musicista e compositrice italiana di stanza a Berlino, ben nota a chi si muove negli ambiti dell’elettronica e della sperimentazione, ma assai meno conosciuta negli ambiti della contemporanea più paludati.

– Leggi anche: L’estasi di Caterina Barbieri

Una nomina che ha spiazzato e già diviso, con la critica e il pubblico più aperti e generazionalmente onnivori che hanno accolto con entusiasmo la notizia, mentre nei contesti più tradizionali ha iniziato a serpeggiare un nemmeno troppo celato (un giro su alcuni profili Facebook nei giorni successivi l’annuncio era piuttosto eloquente) malumore. 

Dopo anni di direzioni affidati a figure solidamente radicate nel sistema della musica contemporanea più istituzionale, arriva ora una outsider, un’artista che generazionalmente e per contesti attraversati sembra piuttosto lontana dalle idee che hanno innervato i programmi degli ultimi 20 anni. Un bene? Un male? Un cambio di paradigma che traccerà nuove luminose strade per il futuro dell’Istituzione o una bomba lanciata per fare il botto senza calcolare altre conseguenze?

Dopo anni di direzioni affidati a figure solidamente radicate nel sistema della musica contemporanea più istituzionale, arriva ora una outsider. Un bene? Un male? Un cambio di paradigma che traccerà nuove luminose strade per il futuro dell’Istituzione o una bomba lanciata per fare il botto senza calcolare altre conseguenze?

Presto per dirlo e saranno i programmi e le performance che vedremo nel prossimo biennio a parlare. Di certo però una ventata di novità è da salutare sempre con ottimismo. Non solo perché si tratta di un’artista solida e intelligente, ma anche perché da più parti (non se n’è mai fatto mistero nemmeno su queste pagine, negli ultimi anni) si invocava uno scarto, una via d’uscita rispetto a un modello che non è sembrato dare conto della biodiversità sonora di questo primo quarto di Ventunesimo Secolo.

Non un compito facile, quello di Caterina Barbieri, ma certamente un’opportunità che sarebbe delittuoso farsi sfuggire, così l’abbiamo intervistata per voi con entusiasmo non solo di circostanza.

Ne è uscita una chiacchierata in cui le risposte sono ponderate e sincere, inevitabilmente ancora prive di nomi e indicazioni precise, ma già piuttosto eloquenti sul tipo di approccio che la musicista intende intraprendere, del tutto coerentemente con la propria linea artistica.

Partirei inevitabilmente dalla “tua” Biennale Musica: sono ben cosciente che sia presto per svelare anche solo linee e intenzioni, ma immagino che in questi primi momenti tu ti sia fatta una qualche idea di come prendere in mano un Festival con questa storia e queste caratteristiche…

«Nella mia curatela per Biennale Musica vorrei avere uno sguardo sul contemporaneo il più vivo e fluido possibile, superando rigide categorizzazioni di genere o stile».

«Nella mia curatela per Biennale Musica vorrei avere uno sguardo sul contemporaneo il più vivo e fluido possibile, superando rigide categorizzazioni di genere o stile».

«Rappresentare la musica del presente nella sua ricchezza e diversità, lavorando per inclusione piuttosto che esclusione, superando una certa impostazione museale che opera per compartimenti stagni — spesso mortificando la vivacità dirompente dei linguaggi della sperimentazione».

«Vorrei anche favorire le connessioni tra passato e presente, rivelando le intime risonanze tra manifestazioni musicali apparentemente distanti tra di loro sia come epoca, geografia o espressione di una comunità. E celebrare la permeabilità del linguaggio musicale e la sua innata capacità di mutare pelle, una forma di eterna trasmutazione e ibridazione che rivela i limiti del ragionare per confini».

Una direzione chiara verso l’abbattimento di barriere e categorie, mi pare di capire.

«Nell’estasi dell’ascolto, si dissolvono rigide nozioni di tempo e spazio. La musica ci insegna molto sulla relatività e i limiti della percezione umana. In questo è simile a Venezia e alla sua vocazione alla mutevolezza: i giochi di riflessi, le fughe prospettiche, il movimento perpetuo di acqua e luce che dissolve i confini e apre allo spazio del molteplice e dell’infinito».

«La fissità di pensiero diventa obsoleta e ci si apre al cambiamento. Con la “mia” Biennale vorrei dare voce a questo cambiamento, nutrendo un’idea di musica come portale nel futuro immaginazione dell’impossibile».

«E quale luogo migliore di Venezia, città la cui esistenza stessa spinge i limiti dell’immaginazione, diventando fortezza dell’impossibile?».

Negli ultimi 20 anni e poco più, a partire da un’altra direzione artistica in qualche senso “anomala” rispetto alle abitudini della scena più accademica, quella di Uri Caine nel 2003, nei programmi della Biennale musica sono state ospitate, a diverso titolo, ma sempre in modo accessorio e poco organico a mio avviso, alcune esperienze elettroniche che nascevano in contesti popular ben distanti da quelli del “sistema” contemporaneo. Ci possiamo aspettare che le proporzioni si rovescino o quantomeno bilancino e si possa avere una visione più completa di quello che si muove a livello internazionale?

«Sì, direi che quello è uno dei miei obiettivi. Grazie alla mia attività concertistica, sono in contatto diretto e vivo con quello che succede a livello internazionale e nella mia programmazione vorrei rappresentarlo nella maniera più diversificata possibile, concentrandomi sui linguaggi musicali di ricerca e sperimentazione, ma anche andando a ricercare le radici del contemporaneo nel passato».

«I recinti li lascio volentieri a chi vuole false certezze, intanto noi ci avventuriamo nell’ignoto senza paura!».

«Non ho mai amato sguardi troppo gerarchici o esclusivi, che hanno il bisogno continuo di recintare tra codici alti e bassi della cultura. I recinti li lascio volentieri a chi vuole false certezze, intanto noi ci avventuriamo nell’ignoto senza paura!».

Lo scorso aprile hai curato il tributo a Peter Rehberg della MEGO al Centre Pompidou di Parigi e anche nell’intervista che hai dato qualche settimana fa a RadioTre Suite parli - e io ne sono strafelice, ammetto - di “curatela” più che di direzione artistica. Cosa vuol dire per te “curare” e che significato ha nel tuo percorso di artista e personale in genere?

«Ti ringrazio! Anche a me piace questa parola, perché pone l’accento sull’aspetto fondamentalmente umanistico e comunitario di questo lavoro. La curatela artistica è qualcosa in cui sono diventata sempre più interessata a partire dalla pandemia».

«L’isolamento estremo di quel periodo mi ha portato a sentire sempre più l’urgenza della condivisione, non solo tramite i miei concerti personali ma anche attraverso la cura della comunità e l’esplorazione di formati più collettivi, dove potevo condividere le mie risorse per dare voce ad altri artisti. Questo mio interesse si è incanalato nel progetto della mia etichetta discografica light-years, che è nata un pò come “cura” al trauma dell’isolamento durante la pandemia. Tramite light-years, ho avuto l’occasione di curare vari progetti discografici e eventi musicali in collaborazione con realtà quali Centre Pompidou, Atonal e Southbank Centre».

«Biennale Musica è ora un’opportunità bellissima di poter continuare in questo percorso, portandolo a un livello più istituzionale e ampio, il tutto reso ancora più speciale e significativo dal poterlo fare nel mio paese natale».

Nella Biennale Arte che è appena terminata sei stata anche autrice, con Kali Malone, della composizione che integra l’installazione di Massimo Bartolini per il Padiglione Italiano. Com’è andata questa esperienza? 

«Sono stata molto felice di partecipare a questo progetto per il Padiglione Italia. Kali Malone è amica e collaboratrice da tanti anni, ma la collaborazione con Massimo Bartolini è stata una bellissima nuova scoperta per me. C’è stata una grande sintonia e profondità di scambio tra noi, e penso che questo si rifletta nell’equilibrio organico che si è venuto a creare nell’installazione tra musica, architettura e arte. Sono contenta per i riconoscimenti di Massimo e del curatore Luca Cerizza, che hanno uno sguardo molto attento alla musica e sono riusciti a portare in Biennale un tema importante come quello dell’ecologia dell’ascolto profondo».

È stato grazie al Padiglione che il Presidente Buttafuoco ha conosciuto il tuo lavoro?

«Quando Pietrangelo Buttafuoco mi ha contattato per questo incarico ha espresso la sua conoscenza della mia musica a priori dal progetto del Padiglione».

Pur essendo ancora giovane, hai una consistente esperienza internazionale: ci racconti un paio di Festival internazionali che secondo te possono essere un esempio/modello importante per la tua curatela e qualche elemento che questa mobilità ha apportato al tuo modo di pensare al sistema musica in generale?

«Penso che questa mobilità internazionale sia importante per scoprire nuovi progetti e essere sempre a contatto col vivo della scena musicale, evitando l’effetto “bolla” e l’eccessiva autoreferenzialità. Penso che queste esperienze siano vitali per comprendere lo spirito del nostro tempo e la continua trasformazione dei linguaggi del contemporaneo».

«Per quanto riguarda i festival a cui guardo con ispirazione, direi Atonal, Unsound e Rewire».

Uno dei temi che a me sembrano più urgenti nel contesto creativo contemporaneo, specialmente con l’elettronica, è quello della riflessione sulla performatività live: attualmente il tuo set come è strutturato e che tipo di relazione di attendi dagli spazi in cui ti trovi?

«Suonare dal vivo è una parte essenziale della mia pratica. Comporre e suonare sono parte dello stesso processo per me, perché non voglio rinunciare alla possibilità di poter restituire la mia musica dal vivo, un atto ritualistico in cui c’è un profondo significato».

«Il valore ritualistico e catartico del concerto, legato all’unicità e irripetibilità della performance condivisa con il pubblico, così come l’incarnazione della musica nella pratica del suonare, si sono un pò persi nella tradizione compositiva occidentale e sono aspetti che sarebbe bello coltivare maggiormente per riappropriarsi anche di quella dimensione più spirituale della musica di cui abbiamo tutti bisogno».

Un altro tema è quello della interdisciplinarietà: la Biennale ha settori distinti per il Teatro, la Danza, la Musica, l’Arte e il Cinema, ma se ci sarà l’opportunità di un dialogo trasversale quali interlocutori ti piacerebbe avere?

«L’interdisciplinarietà è un tema che mi è molto caro, anche grazie alle esperienze legate alla musica elettronica e alle produzioni audio-video».

«Un aspetto innovativo della musica elettronica infatti è proprio quello della multimedialità, che permette di esplorare l’ibridazione dei linguaggi artistici e offrire esperienze multisensoriali. Molti artisti del contemporaneo si esprimono proprio in questa dimensione multimediale e non possono essere ridotti a un solo specifico ambito di ricerca».

«Dare voce a questa ibridazione è importante e mi piacerebbe creare connessioni tra musica, video, immagini e performance. In generale nella mia programmazione vorrei dare importanza all’aspetto esperienziale e ritualistico della fruizione musicale, con particolare attenzione all’ambientazione e componente visiva del concerto, a partire dal light design, set design e scelta di orario e location».

Che dischi ti hanno colpito o stai ascoltando in queste settimane

«Spellewauerynsherde di Akira Rabelais, Parallel Shift di Cybotron, Further Selections from The Electric Harpsichord di Catherine Christer Hennix, Ihunke di Umeko Ando, Nachthorn di Maxime Denuc».

Chiudiamo la chiacchierata con un giochino: non voglio metterti in imbarazzo chiedendoti anticipazioni, quindi giochiamo con il passato: tre artiste o artisti che non ci sono più, ma che se fossero vive sarebbero nella tua Biennale? E perchè?

«Penso che nella “mia” Biennale ci saranno parecchie artiste/artisti che non ci sono più quindi la domanda mi mette comunque in imbarazzo. Per giocare ancora di più, posso dirti che se si potesse vorrei portare la musica lontana degli spazi siderali».

«Per giocare ancora di più, posso dirti che se si potesse vorrei portare la musica lontana degli spazi siderali».

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