C’è voluto parecchio, per organizzare un’intervista con Vinicio Capossela, che da due mesi faticava a trovare una disponibilità per fare due chiacchiere in libertà sul suo disco uscito lo scorso aprile, Tredici canzoni urgenti, che presenterà in concerto il prossimo 13 luglio all'UlisseFest, il festival del viaggio di Lonely Planet, a Pesaro.
– UlisseFest. La festa del viaggio di Lonely Planet
Quando finalmente si fissa uno slot, accade lo stesso giorno in cui escono gli esiti delle Targhe Tenco, che lo vedono ancora una volta (è addirittura la quinta!) trionfare nella categoria “miglior album”.
Si comincia quindi tra frizzi e lazzi e la chiacchierata, ovviamente, inizia parlando del premio vinto poche ore prima…
Vinicio, un’altra vittoria al Tenco… soddisfatto?
«Sono contento soprattutto perché questo è un disco comunitario che travalica le vicende dell’autore ed è figlio della congiuntura del momento, per cui quindi mi fa piacere che queste canzoni possano in qualche modo essere utili a qualcuno».
«Questo è un disco comunitario che travalica le vicende dell’autore ed è figlio della congiuntura del momento».
E per te cosa significa questo ultimo disco, che mi sembra marcare uno scarto rispetto alla tua produzione precedente? Qual è il significato di “canzoni urgenti”?
«Sì, è un disco diverso dai precedenti, anche se in continuità con Ballate per uomini e bestie, che usava più la forma dell’allegoria per parlare del presente. In questo caso invece il linguaggio è più diretto e la musica sposa di conseguenza il contenuto testuale, si affianca alle storie da raccontare. Le canzoni sono “urgenti” nella misura in cui rispondono agli stimoli dell’attualità: ho proprio sentito la necessità di dire la mia rispetto a quello che succedeva nel mondo, come band ci siamo posti questo obiettivo e l’album ne è il risultato».
Qui si impone una nota redazionale. La cosa curiosa che rileviamo è che, per un disco che tratta fondamentalmente di temi sociali o comunque di ampio respiro (la guerra, la violenza di genere, l’abbrutimento da uso scriteriato dei device digitali, il carcere come forma esclusivamente punitiva, gli eccessi della cultura consumistica, eccetera), quello che ne risulta è un disco intimista, autorale al senso stretto del termine.
Come se la forte personalità dell’artista assorba e filtri queste tematiche, fino a farle diventare l’espressione di una visione assolutamente personale; come in “Il bene rifugio”, in cui tutte le difficoltà oggettive descritte nel testo, con un linguaggio volutamente piatto fatto di termini economici, si risolvono grazie al rapporto con la persona amata.
Sarà questa, l’impressione di chi scrive, condivisa o meno dagli altri ascoltatori? In realtà, si tratta di due facce della stessa medaglia; anche se Vinicio, dal suo punto di vista, la vede diversamente…
Riconosci in questo disco un registro in qualche modo intimista, che si nota di più rispetto a certi dischi passati?
«Io penso che sia il contrario… che anche i sentimenti intimi come l’amore siano rapportati a quello che accade all’esterno. Il mondo cade a pezzi, il prezzo del gas va alle stelle, la speranza si riduce, e l’affermazione “tu sei il mio bene rifugio” è una conseguenza di questi eventi; è la scoperta di quali sono le cose alle quali dare effettivo valore».
«L’amore in questo caso diventa una forza costruttiva di partecipazione, e non una chiusura nel privato. Per me questo è uno dei dischi meno intimisti che ho mai fatto!”
Per tornare a un altro tema che ha a che fare con i rapporti amorosi tra uomo e donna, mi ha colpito molto “La cattiva educazione”…
«È una canzone che tratta di un tema importante come la violenza che si instaura nella coppia, ed è anche stata difficile da scrivere, dovendolo fare dalla parte dell’uomo, senza finire col dire cose scontate».
«Ci sono molte cose alle quali siamo abituati e alle quali non pensiamo, accettando implicitamente alcuni aspetti che portano alla violenza di genere. Invece dobbiamo renderci conto che questa violenza parte da molto lontano, da tutta una serie di mancanze e deresponsabilizzazioni, che sono riassumibili in questa espressione "cattiva educazione". Sta a significare l’incapacità di gestire le emozioni, di sostenere un confronto, e che può portare anche a conseguenze orribili.
«È come se al momento in cui si forma la nostra base morale ci sia una lacuna; se poi la interiorizziamo senza mai metterla in discussione, e sappiamo bene quanto possa essere tenace l’abitudine, esiste il rischio di una degenerazione. D’altronde sono molto contento che Margherita Vicario abbia cantato questo pezzo, che aveva bisogno di una voce femminile».
“Cha cha chaf della pozzanghera” invece è un pezzo più spensierato, un po’ memore delle deviazioni del passato…
«Beh, all’inizio della mia carriera c’era molta gente che era convinta che io fossi brasiliano o comunque latino-americano, questi suoni sono sempre in qualche modo rimasti nel mio stile. Nel caso di questa canzone, c’è un riferimento onomatopeico al “cha cha” come suono che si fa sbattendo i piedi nella pozzanghera».
«L’urgenza di questo pezzo è nella relazione con i bambini, con la riscoperta della dimensione del gioco più spontaneo, ora che sembra che se non abbiamo uno schermo davanti non riusciamo a divertirci. E poi c’è la dimensione filosofica della pozzanghera, che ci sporca e ci bagna solo al momento in cui decidiamo di metterci i piedi dentro…».
Cosa significa per te scrivere una canzone? È più esprimere uno stato d’animo personale per poi trasferirlo all’ascoltatore, o creare un mondo inedito verso il quale farlo poi viaggiare (come accade ad esempio in un pezzo evocativo come “La crociata dei bambini”)?
«Il mio modo di scrivere le canzoni è cambiato moltissimo nel corso degli anni. Agli inizi, avevo appena 24 anni, era una vera e propria necessità di rielaborare delle esperienze di vita in una dimensione di socializzazione. In genere si trattava di esperienze che potevano essere condivise, per cui io come artista mi ritrovavo nel ruolo del cantante “confidenziale”, quello che metteva in musica un vissuto comune con l’ascoltatore».
«A partire da questa esperienza, c’era poi un processo di rielaborazione e di studio che la trasponeva in ambiti più generali: la letteratura, la storia, il mito. In questo caso sì, si può parlare di viaggio sia nel tempo che nella geografia, e dell’evocazione di epoche diverse nelle quali non abbiamo vissuto, ma che in questo modo riscopriamo».
«Col passare del tempo, la canzone ha assunto anche una dimensione più sociale e civile, assumendo un ruolo meno immaginifico ma altrettanto importante».
Che senso ha per te il viaggio, è più una questione mentale o è l’esperienza fisica di scoprire posti nuovi?
«Diceva Fellini che il viaggio è sempre immaginario, è sempre dall’altra parte della vita. Anche quando viaggiamo spostandoci fisicamente, questa esperienza non avrebbe valore se non ci fosse anche la componente dell’immaginazione. Tra l’altro c’è una canzone dell’album che parla esplicitamente di un viaggio, si intitola “Il tempo dei regali” ed è ispirata allo scrittore inglese Patrick Leigh Fermor, che fu famoso per i suoi viaggi in Europa più o meno un secolo fa».
«Diceva Fellini che il viaggio è sempre immaginario, è sempre dall’altra parte della vita».
«Quello che colpisce dalla lettura dei suoi diari è la sua totale disposizione all’incontro, che è poi alla fine il senso ultimo del viaggiare. Per concludere con una citazione famosa, si può proprio dire che "Una volta mollata l’anima, tutto il resto viene di conseguenza"».