BOTANY
Deepak Verbera
Western Vinyl
Potremmo cominciare dalla premessa posta dall’autore, esposta con dovizia di dettagli nelle note di copertina. L’opera è frutto del suo tentativo di ricreare le musiche registrate nei primi anni Settanta dall’argentino Horris E. Campos, “viaggiatore mistico” che a sua volta aveva provato a emulare le vibrazioni sonore usate per comunicare dalle forme di vita aliena con le quali sosteneva di essere entrato in contatto: reperti audio andati perduti in un incendio.
Del signor Campos, tuttavia, non si trova alcuna traccia sul web o altrove. È dunque ragionevole ritenere che si tratti di un’invenzione del texano Spencer Stephenson, in arte BOTANY: originariamente batterista jazz e poi produttore di hip hop astratto, come testimoniano i due album precedenti. Questo nuovo, intitolato associando il vocabolo hindi deepak (sorgente di luce) al latino verbera (flagelli), tende a situarsi viceversa in una zona intermedia fra lo spiritualismo jazz di Alice Coltrane e le scorribande “cosmiche” dei Popol Vuh: una sorta di ambient music percorsa da sottili impulsi d’irrequietezza, confezionata campionando vecchi dischi in vinile, mettendo voci in loop e manovrando sintetizzatori analogici.
Quando la relazione tra i vari fattori in gioco raggiunge un punto di equilibrio, ad esempio in “Burning From the Edges Inward” (dove la grafia minimalista rimanda a Terry Riley) o negli episodi in cui affiorano gli echi dei trascorsi da jazzista avant-garde del protagonista (“Outer Verberum” e “Needam/Wish To”), l’effetto è davvero suggestivo, mentre in altri casi ci si accosta invece per inerzia a certe leziosità new age, come avviene in “Appears (Mini Verberum)” e “Orange Hits the Pupil”. Nell’insieme, comunque, Deepak Verbera offre un’esperienza d’ascolto insolita e avvincente, soprattutto se si segue l’esortazione di Stephenson: «È musica concepita per essere ascoltata ad alto volume».