Tra i moltissimi testi dedicati a Bob Dylan arrivati in libreria nell'ultimo anno (il 2021 ha visto non poche celebrazioni per gli 80 anni del cantautore) un nucleo di lavori seri, di studiosi rigorosi, sembra costringere alla riflessione su come Bob Dylan abbia da tempo raggiunto lo statuto di "classico", in un modo sostanzialmente unico tanto per un musicista quanto per un autore; e su come questa constatazione riguardi nel profondo il senso degli studi sulla popular music.
Mi riferisco in particolare alla nuova edizione di La voce di Bob Dylan di Alessandro Carrera (Feltrinelli), a Perché Bob Dylan di Richard F. Thomas (EDT: ne abbiamo parlato qui), alla raccolta di saggi Bob Dylan and the Arts (Edizioni di Storia e letteratura) e – infine – a Bob Dylan e Like a Rolling Stone: filologia, composizione e performance, di Mario Gerolamo Mossa, uscito per la collana Musica Contemporanea di Mimesis.
Mario Gerolamo Mossa è un giovane dottorando in italianistica dell’Università di Pisa, che ha dedicato la sua tesi specialistica a “Like a Rolling Stone”. Ha avuto poi l’occasione di accedere in anteprima al nuovo Bob Dylan Center di Tulsa, che raccoglie l’archivio del musicista e che (forse) lo metterà un giorno a disposizione del pubblico. Mossa ha così potuto fare qualcosa che agli studiosi di pop è spesso stato precluso: ovvero, lavorare metodicamente su delle fonti per ricostruire i dettagli della genesi di una singola canzone, analizzando e comparando tra loro diverse stesure, performance, incisioni, appunti… e a sua volta dovendosi confrontare con le precedenti letture di quella che è senza dubbio una delle canzoni più studiate della storia del pop, a partire dal celebre Like a Rolling Stone di Greil Marcus.
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Mossa ci consegna dunque un rigorosissimo libro di “filologia della popular music”, non sempre di facile lettura ma che, rappresentando una rarità sulla scena accademica si pone anche come modello metodologico e possibile fondazione per un modo nuovo di approcciare la musica pop. E che, appunto, solleva diverse domande sul senso che può avere, nel 2021, studiare le canzoni.
L’occasione era dunque propizia per una chiacchierata approfondita.
La prima domanda che mi viene in mente è «Perché?». Perché intraprendere uno studio di questo genere, di questa portata, su un oggetto “pop” come una canzone? Quale può essere l’obiettivo di un saggio di filologia di più di 300 pagine… su una singola canzone – peraltro già analizzata da altri?
«Il perché di questo lavoro nasce in realtà da un come: come studiare i materiali preparatori di un classico della popular music, come contestualizzarli all’interno di una storia performativa e come interpretarli in rapporto alla fortuna critica. Per cercare una risposta, ho dovuto immaginare una filologia che rinunciasse ai concetti di originale e definitivo e provasse a dialogare con la sua (presunta) “nemesi”, ossia gli studi sull’oralità. Quindi il perché si riduce a una risposta quasi banale: ho scritto questo libro per offrire ai lettori l’opportunità di confrontarsi con dei materiali prima in parte sconosciuti, e dunque assenti in tutta la pur ricca bibliografia su "Like a Rolling Stone"».
«Quanto alla legittimità dell’operazione in sé, posso dirti che non amo le analisi unicamente letterarie delle canzoni, ma allo stesso tempo non ritengo che gli strumenti critico-letterari siano incompatibili a priori con la testualità di canzone. E certo l’autonomia estetica del pop si fonda anche su una trasversalità che invita all’incontro tra discipline diverse, sebbene non esista una “ricetta” universale e sia inevitabile trascurare punti di vista che magari sarebbero stati rilevanti col senno di poi. Nel caso del mio libro, preciso che le questioni filologiche servono più a porre delle domande che a fornire delle risposte e, anche per questo, sono essenzialmente confinate alle ricostruzioni del primo capitolo e all’analisi stilistica inclusa nel secondo».
«Le questioni filologiche servono più a porre delle domande che a fornire delle risposte».
«Durante la fase di ricostruzione e ordinamento delle fonti, mi sono reso conto che non avrebbe avuto senso raccogliere quel tipo di dati senza poi dedicare altrettanto spazio alla loro contestualizzazione storica e culturale. Volevo insomma che, dal mondo dei fatti, "Like a Rolling Stone" ritornasse nel mondo delle interpretazioni, intendendo con questo termine sia le abitudini ermeneutiche degli ascoltatori, sia le modalità performative maturate dalla voce dylaniana in oltre duemila esecuzioni dal vivo».
Leggendo il tuo lavoro, da musicologo che si occupa di oggetti come quello che di cui ti sei occupato tu, mi sono trovato spesso a riflettere sul senso più grande di quello che facciamo, sull’obiettivo ultimo di studio. È un tipo di domanda che ti sei posto anche tu, a un certo punto?
«Certo, mi chiedo spesso quali siano gli scopi del fare ricerca, e spero di non trovare mai una risposta definitiva. Un mio caro amico e collega ritiene che la scrittura scientifica descriva un percorso “circolare”, intrapreso per trovare nel mondo una meta più o meno corrispondente alle intuizioni iniziali di chi scrive. Questo meccanismo psicologico ci dice molto sugli obiettivi che gli studiosi assegnano alle loro ricerche, ma è anche vero che certi studi trovano il loro scopo nel corso del tempo, rendendosi sempre più indipendenti dalle ragioni personali e professionali dei loro autori».
«Se invece la tua domanda è riferita al caso specifico del mio libro, potrei dirti che mentre scrivevo la parte filologica pensavo spesso a come dialogare con un’altra (sempre presunta) “nemesi”, ossia lo splendido volume di Greil Marcus del 2005. Senza il libro di Marcus, non avrei mai potuto concepire la mia monografia, che in un certo senso nasce per integrare a quelle analisi culturali una cronologia compositiva fondata su materiali che Marcus non poteva conoscere. Il punto è che, in realtà, anche Bob Dylan at the Crossroads è a suo modo un testo “filologico”, visto che si conclude con le trascrizioni di due recording sessions che sarebbero state pubblicate dieci anni dopo in The Cutting Edge. Marcus non poteva immaginare che il suo epilogo avrebbe ispirato un capitolo di filologia poetico-musicale, anche se di fatto quell’epilogo poneva dei problemi che meritavano di essere discussi. Con il tempo sto imparando a capire che i nostri libri non si escludono a vicenda, e anzi per certi versi condividono lo stesso obiettivo ultimo, magari percorrendo strade diverse».
Un’altra domanda potrebbe essere «Per chi» è questo libro. Che tipo di lettore avevi in mente? Di certo non è un libro “facile”, anche rispetto a quello di Marcus, per esempio.
«Mi rendo conto che il mio libro possa risultare spiazzante, ma questo per me è in fondo un male minore. Il vero rischio che volevo evitare era la tuttologia, rischio sempre molto alto nei contesti interdisciplinari. A me piace pensare a questo lavoro innanzitutto come a un esperimento condotto con l’incoscienza di chi non ha mai pubblicato un libro ed è stato incoraggiato a farlo da studiosi molto più esperti di lui (a cominciare da Alessandro Carrera, Sergio Zatti e Luca Cerchiari, direttore della collana Mimesis “Musica contemporanea”)».
«Il vero rischio che volevo evitare era la tuttologia, rischio sempre molto alto nei contesti interdisciplinari».
«Potrei usare la scusa dell’inesperienza anche per dire che non sono stato in grado di consegnare alle stampe un libro “democratico”, ma la verità è che cercavo un linguaggio di compromesso, che non comportasse semplificazioni ma neanche travestisse di tecnicismo soluzioni offerte a buon mercato. Intendevo soprattutto illustrare dei problemi dialogando con studiosi provenienti da settori diversi, e questo confronto, a dire il vero, è iniziato prima della pubblicazione, quando avevo bisogno di valutazioni preliminari che mi rendessero maggiormente consapevole di ciò che stavo scrivendo. Non mi stupirò se nel corso del tempo questo libro verrà accolto in modi contrastanti: sarò anzi contento se susciterà reazioni opposte, perché dimostrerà ancora una volta l’ambivalenza della domanda How does it feel?, in linea con l’oggetto della ricerca. Sono ironico? Sono ironico (Lo sono?)».
Di sicuro, mi sembra che tu abbia delineato un percorso di “filologia della popular music”, fino a ora poco battuto. Vedi un futuro per questo approccio? Quali potrebbero essere le sue specificità rispetto alle “altre” filologie, secondo te?
«Non sono a conoscenza di ricerche interessate a definire in termini filologici il proprium di un testo performativo, anche se esistono già alcuni ottimi lavori dedicati agli autografi scritti di Fabrizio De André (potrei citare gli studi di Vera Vecchiarelli, Jan Gaggetta e Alessandro Biotti). L’idea di una “filologia popular” è senz’altro affascinante, ma pone questioni molto delicate. In primis, un paradosso apparente: che la filologia è da sempre orientata alla ricostruzione dei testi scritti (per lo più letterari), anche se, di fatto, senza filologia non avremmo mai potuto tramandare tradizioni che sono alla base del canone occidentale e che hanno avuto in origine una destinazione innanzitutto orale (pensiamo, per esempio, alle edizioni omeriche curate dai grammatici alessandrini o, nel Medioevo, alle traduzioni delle Scritture e ai canzonieri trobadorici). Quindi, da un punto di vista puramente teorico, non vedo perché l’etimo della parola “filologia” (“amore del discorso”) non possa essere esteso anche alle peculiarità delle canzoni moderne. Il problema, casomai, è metodologico, dato che in questo tipo di testi “nulla si crea e nulla si distrugge” e incentrare la ricerca su “ciò che si trasforma” comporta la revisione radicale di alcuni assunti comuni a quasi tutte le filologie moderne; occorre postulare, tra le altre cose: l’esistenza di un continumm antigerarchico in cui oralità e scrittura non si escludono a vicenda; la necessità di intendere una performance come un testo a tutti gli effetti e confrontare varianti orali e varianti scritte; la rinuncia a qualsiasi pretesa di determinismo; l’impossibilità di risalire a una versione originale o definitiva. Queste e altre indicazioni sono il frutto di una sola ricerca su una sola canzone, ed è chiaro che non tutte le canzoni sono “Like a Rolling Stone”».
«Da un punto di vista puramente teorico, non vedo perché l’etimo della parola “filologia” (“amore del discorso”) non possa essere esteso anche alle peculiarità delle canzoni moderne».
«Per certi versi, però, tutte le canzoni meritano di essere indagate anche da un punto di vista filologico, e forse la vera sfida sarebbe verificare l’applicabilità di un metodo simile in rapporto a opere che non ci offrono così tanti materiali e non hanno avuto la stessa rilevanza storica. D’altra parte, non dimentichiamo che il mondo della popular music è sempre stato caratterizzato da modalità di fruizione che potremmo definire “spontaneamente” filologiche, come per esempio l’abitudine di ricostruire una storia performativa per confrontare versioni diverse dello stesso brano. Si tratta allora di sistematizzare questa predisposizione con degli strumenti scientifici, dando valore all’idea che una potenziale “filologia popular” ci aiuti a identificare più una serie di competenze condivise che un sapere appannaggio di pochi. La strada è lunga, ma il fatto che nei prossimi anni verranno aperti molti nuovi archivi lascia ben sperare».
Mi sembra che il tuo libro in qualche modo sia un ulteriore passo verso uno spostamento di certe musiche verso la definitiva consacrazione culturale, al punto che oggi ha senso studiare il pop come lo studi tu, mentre non avrebbe avuto nessun senso fino a qualche anno fa. Lo stesso Nobel a Dylan è parte di questo discorso, e ha fatto emergere tutte le contraddizioni insite in questo avvicinamento: un fenomeno nato anche contro il modello dell’alta cultura ora gli si accosta sia per ambizioni sia per – appunto – modalità di studio, di ascolto… Che ne pensi?
«Il Nobel 2016 ha senz’altro reso evidenti molte contraddizioni: quelle di Dylan, che si è reso conto di non poter essere più un simbolo della controcultura (rimando qui alla nuova edizione de La voce di Bob Dylan, in cui Alessandro Carrera approfondisce questo punto); quelle dell’Accademia di Svezia, che a mio avviso ha premiato Dylan per le ragioni sbagliate; quelle del senso comune di pubblico, scrittori e istituzioni, che hanno accolto o criticato la vittoria di Dylan adducendo motivazioni spesso non meno paradossali. Se è vero che ogni percorso di canonizzazione comporta, nel bene e nel male, l’adozione di modalità di studio specialistiche, allora direi che la poetica dylaniana è un’eccezione che conferma la regola».
«Se un altro studioso avesse avuto accesso agli inediti – diciamo – dieci o vent’anni fa, magari non avrebbe potuto citare il Nobel o non avrebbe fatto ricorso a strumenti filologici, ma senza dubbio avrebbe già dovuto fare i conti con una bibliografia sterminata che inizia dalla fine degli anni Sessanta e coinvolge i campi del sapere più vari. Ci sono opere che, fin dalla loro comparsa nel mondo, rivelano fin da subito la loro “caratura” di classici e in questo senso “Like a Rolling Stone” è uno di quei brani che non sono mai stati soltanto una canzone, esattamente come Guerra e pace o La dolce vita non sono mai stati soltanto un romanzo e un film. Per certi versi, quindi, studiare quei materiali ora significa interrogarsi anche sulla natura ibrida, antigerarchica e inclusiva del canone di cui Dylan sente di fare parte e che ha contribuito a definire: un canone in cui figure come Buddy Holly, Shakespeare, Charlie Poole e il profeta Isaia contribuiscono in egual misura alla percezione di una classicità-altra che, pur essendo ormai indiscutibile, non può essere passivamente adattata alla nostra definizione di classico».
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«Il mio libro in parte eredita le contraddizioni esposte sopra, ma finisce forse per fare un involontario passo in avanti, perché sposta l’attenzione su un tipo di artigianalità che siamo più abituati a celebrare che a comprendere. Avvicinarsi a questa tecnica, in ultima analisi, significa indagare le ragioni creative per cui universi lontani come i Fiori del male, Muddy Waters e le nursery rhymes possono improvvisamente collidere e dare origine a un oggetto chiamato “Like a Rolling Stone”.
Per chiudere, vorrei chiederti dell’archivio di Tulsa… Che tipo di documenti hai potuto vedere e che tipo di cose devono ancora saltare fuori, per il futuro?
«Il Bob Dylan Center, situato a Tulsa (Oklahoma) e ospitato presso lo Helmerich Center for American Research, è stato fondato nel 2016 ma verrà aperto al pubblico soltanto la prossima primavera. Non so dire se, per allora, potranno accedere anche i semplici visitatori. Quello che so è che per il momento serve un progetto e una richiesta di consultazione già mirata a specifici documenti (presenti nel Finding Aid scaricabile sul sito ufficiale). Sono stato all’archivio nel giugno 2019, in occasione di un convegno organizzato dall’Università di Tulsa e interamente dedicato a Dylan. Di fatto, avevo consegnato la mia tesi su “Like a Rolling Stone” l’anno precedente, ma pensai di cogliere l’occasione per compiere nuove ricerche in vista della pubblicazione del libro, sia consultando i documenti originali che avevo letto in versione OCR, sia provando a rintracciare nuove fonti non esplicitamente connesse a “Like a Rolling Stone”».
«In particolare, mi interessava studiare gli autografi non catalogati degli anni Sessanta (per lo più canzoni incompiute o prose ritmiche sul modello beat) e soprattutto la lunghissima bozza inedita del prosimetro Tarantula, che fu pubblicato nel 1971 (in una versione molto ridotta), ma di fatto venne battuto a macchina nello stesso biennio in cui Dylan lavorava alle canzoni di Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde. Bisogna dire che un grande merito dell’archivio è raccogliere anche numerose testimonianze musicali e visive, come ho avuto modo di verificare consultando alcune riprese inedite del documentario Dont Look Back e la versione integrale degli outtakes inclusi in The Cutting Edge. Avevo solo una settimana di tempo, quindi ricordo la frenesia e la fatica di quei giorni, ma anche le avventure e le emozioni, condivise con il mio caro amico e collega Fabio Fantuzzi, che si trovava a Tulsa per le stesse ragioni. Altri importanti compagni di viaggio sono stati il prof. Richard Thomas (docente di Classics ad Harvard), il ricercatore irlandese Jonathan Hodgers e il direttore dell’archivio Mark Davidson. Mark ha avuto un ruolo fondamentale anche nel corso dell’anno successivo, durante il quale siamo impazziti per convincere l’ufficio legale di Dylan a fornirci tutte le autorizzazioni necessarie per citare e riprodurre gli inediti. Spero di tornarci l’anno prossimo, magari in compagnia anche di Valentina Vetri, un’ottima dylanista dell’Università di Bologna, e – speriamo – di Alessandro Carrera, che all’archivio farebbe meraviglie».