Alberto Pinton, un italiano in Svezia

Intervista ad Alberto Pinton, polistrumentista sulla scena jazz di Stoccolma

Alberto Pinton
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Alberto Pinton, polistrumentista (clarinetti, sassofoni, flauti) veneto di stanza in Svezia oramai da una vita, è stato per chi scrive una vera e propria rivelazione. Non lo avevo mai letteralmente (e colpevolmente) sentito nominare prima che lui stesso mi contattasse per propormi la sua musica, nello specifico Layers, il suo ultimo lavoro con il progetto Sestetto Contemporaneo. Bum! Una voce matura e personale, grondante Storia con la maiuscola ma al tempo stesso avventurosa, stimolante e piena di swing (per farvi un'idea, potete visitare il suo sito).

Era necessario approfondire con una intervista.

Alberto Pinton

Partiamo dall'inizio: mi racconti il tuo primo approccio con la musica, la tua prima epifania? Come ti sei avvicinato al jazz?

«Allora: la musica era presente in casa da sempre, attraverso gli esercizi di pianoforte della sorella maggiore che studiava al Conservatorio. Poi non mi ricordo per che occasione o esattamente a che età (comunque adolescenza) mio padre mi regalò uno stereo Sony, e io cominciai a comprare vinili con soldi guadagnati lavorando saltuariamente. I primi due LP che comprai furono Bahia e The Master di John Coltrane; un carissimo amico era appassionato di jazz, e mi influenzò sin dall’inizio».

Una domanda poco simpatica. Leggendo il tuo nutrito curriculum vitae è evidente quanto tu ti sia dato da fare – e non poco – in questi anni a livello discografico, oltre al fatto che hai un'attività concertistica consolidata e robusta in Svezia, e non solo. Come mai in Italia non ti si conosce molto?

«La relazione con l’Italia? I primi due CD a mio nome sono registrati in Italia con musicisti italiani o residenti in Italia. Roberto Dani alla batteria, Salvatore Maiore al contrabbasso e Kyle Gregory alla tromba. Dire che ci ho provato a presentare sia quello che i gruppi successivi, è il cosiddetto understatement. Ma più di tanto non si può battere, e se le risposte alle mail spedite a vari organizzatori non vengono, alla fine mi risiedo davanti al piano e continuo a comporre, o soffiare nei vari tubi, almeno so che allora i risultati vengono. Chiaramente, mi farebbe un piacere enorme riuscire a presentare la mia musica nel mio paese natale».

Se penso alla Svezia jazz i primi nomi che mi vengono in mente sono Don Cherry, la Bitter Funeral Beer Band, Per Henrik Wallin (ricordo la folgorazione nel captare anni fa per radio le Stockholm Tapes su Ayler Records), Martin Kuchen e i vari assetti degli Angles, gli Atomic, i vari progetti di Mats Gustaffson: cosa mi sono perso, cosa ci consigli di ascoltare? Fuori i nomi!

«Beh, oltre ai nomi che fai tu c’è una moltitudine di musicisti forse meno conosciuti sulla scena internazionale che però spingono i propri progetti con costanza e creatività. Collegati sia all’etichetta Moserobie di Jonas Kullhammar (sassofonista e produttore esecutivo visionario e superproduttivo: sull’etichetta si ritrovano anche la maggior parte delle mie produzioni) che ad esempio alla portoghese Clean Feed di Pedro Costa (dove ci sono anch’io) ci sono ad esempio il bassista Torbjörn Zetterberg e il vibrafonista Mattias Ståhl, entrambi molto attivi (per esempio con Angles che tu menzioni), il trombonista Mats Äleklint suona (come tanti di noi) un po’ con tutti ed è una forza solistica notevole».

«Più su un campo, se vogliamo, meno di ricerca, più “tradizionale” con spessore artistico notevole ci sono la Stockholm Jazz Orchestra, il trombettista Peter Asplund, il sassofonista Håkan Broström, la compositrice/arrangiatrice Ann-Sofi Söderqvist. Io ho lavorato e lavoro come sideman con tutti loro, e i progetti presentati e i CD registrati sono di spessore notevole. Infine sicuramente la cantante/compositrice/arrangiatrice Lina Nyberg e il suo compagno, il sassofonista e clarinettista Fredrik Ljungkvist (Atomic). Un'altra voce originale è il sassofonista Fredrik Nordström (anche lui su Moserobie e Clean Feed)».

Trovi la sensibilità verso il jazz diversa da quella che c'è in Italia?

«Per quanto riguarda la sensibilità devo dire che non saprei proprio. Forse che il pubblico italiano è più variato sia d’età che di gusti? Se dovessi azzardare un’analisi superficiale e veloce, qui il pubblico jazz è forse più settoriale?».

C'è un buon pubblico per chi esce dal seminato, lì? Qua da noi la sensazione è che siamo sempre meno.

«Direi sì e no: io vivo a Stoccolma e il Glenn Miller Cafè è da anni il locale dove si osa di più. A volte è pieno, a volte no. Ci sono naturalmente altri locali e festival dove la musica meno tradizionale viene presentata regolarmente. Muovendomi un po’ in entrambi i campi (su quello più tradizionale più come sideman dato che la musica mia viene definita più di ricerca) posso dire che il pubblico è più numeroso, nel campo volendo più swing».

Alberto Pinton

Chi sono i tuoi musicisti di riferimento?

«Un sassofonista che mi ha colpito molto sin dalle prime note e che si è mosso durante tutta la sua carriera a cavallo tra avant-garde e una forte connection con la tradizione è Hamiet Bluiett, con cui tra l'altro ho avuto la fortuna di studiare a New York. Un musicista pragmatico e diretto, maestro assoluto del sassofono baritono e delle possibilità espressive di quello strumento. Altri nomi? Senza ordine particolare né particolarmente come strumentisti o compositori così come mi vengono in testa: Tim Berne, Duke Ellington, Eric Dolphy, Joe Henderson, John Carter, Steve Reich, Morton Feldman, Oliver Nelson, Charles Mingus. Le influenze arrivano da tutte le parti, ma la volontà di base è sempre quella di creare uno spazio sonoro scritto e improvvisato dove mi senta di poter dire: ecco, questo sono io».

Clarinetto, baritono, flauto. Non ne bastava uno solo? 

«Con il senno di poi potrei anche darti pienamente ragione. La “regola delle 10.000” ore salta subito quando si cerca una propria voce su strumenti diversi. Un work in progress costante. Compositori e polistrumentisti come Marty Ehrlich, Anthony Braxton, Henry Threadgill, Roscoe Mitchell e Vinny Golia sono stati fin dall'inizio fonte di ispirazione in questa ricerca di situazioni sonore con tubi vari. Sono stato imperterrito e a tutt'oggi posseggo (e pratico e uso a seconda delle situazioni/progetti) sassofoni dal sopranino al basso, clarinetti dal piccolo in Mi bemolle al contra-alto, flauti dall'ottavino al basso. Non mi arrendo! [ride]».

Come funziona il procedimento di composizione? Che equilibrio sussiste tra scrittura e improvvisazione nei tuoi materiali? Ti interessa il concetto di equilibrio, hai sempre ben chiaro dove andrai, dove andrete, quando fai musica?

«Sono sempre titubante a definirmi compositore. Mi sento forse più a mio agio come strumentista che scrive musica. Ma, detto questo devo alla fin fine rendermi autocosciente del fatto che dopo una dozzina di produzioni di musica originale un certo numero di brani alla fine li ho scritti. Quando scrivo cerco di restare il più aperto possibile, sia come materiale (tonale, modale, diatonico, atonale, vamp, groove, accordi, situazioni libere) che come lunghezza. Ho scritto composizioni brevissime (mi ricordo ancora l'impressione che mi fece "In the Cage" di Charles Ives, un minuto abbondante di musica perfettamente bilanciata. Un minuto!) ed altre dove invece ci sono vari movimenti e transizioni, momenti solistici e passaggi scritti intersecati e quasi indistinguibili».

«Sono sempre titubante a definirmi compositore. Mi sento forse più a mio agio come strumentista che scrive musica».

«Preferisco di solito lasciare che la composizione si "sgomitoli" da sola, a volte lascio stare anche il decidere chi improvvisa, per quanto tempo, se finire il brano con la parte A o B o C; impartisco poche istruzioni, a volte niente, ai musicisti coinvolti, e di solito quelle che poi uso nelle mie produzioni sono proprio le tracce dove l'inaspettato si è creato da sé. La composizione è lì, tutta intera ma in più c'è tutto un mondo improvvisato (che coinvolge anche l'interpretazione dello scritto, il fraseggio, i tempi) che si è materializzato al momento. Secondo me è anche quello che dimostra il peso tematico di una composizione. Se i musicisti coinvolti trovano sentieri nuovi e propongono idee proprie vuol dire che c'è materiale che dà ispirazione».

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