Gli Africa Unite, il gruppo reggae originario di Pinerolo, festeggiano i 40 anni di attività con un anno di ritardo a causa delle restrizioni dovute al Covid: ed ecco allora un nuovo disco, Non è fortuna, uscito lo scorso 11 maggio – anniversario della scomparsa di Bob Marley – e un tour che prevede una ventina di date, una delle quali sarà sabato 16 luglio all’UlisseFest a Pesaro, il festival del viaggio di Lonely Planet Italia.
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Ci sono più motivi quindi per una chiacchierata con Francesco Caudullo (Madaski) e Vitale Bonino (Bunna), i due fondatori nonché punti fissi di un gruppo che nel corso degli anni è stato a geometria variabile, con ingressi e uscite quasi sempre senza traumi; un gruppo che può anche essere visto come una specie di palestra in cui si sono formati musicisti che in seguito hanno dato vita ad altri gruppi di successo.
Gli avvenimenti spostati di un anno hanno avuto esiti insperati e molto felici: sto pensando alla vittoria agli Europei di calcio e alle medaglie d’oro nei 100 metri piani, nella staffetta 4x100 e nel salto in alto alle Olimpiadi di Tokio. Vien da pensare che fare le cose con un anno di ritardo porti fortuna ma, come dice il titolo del vostro nuovo album, in realtà non è fortuna e, in ultima analisi, ognuno è artefice della propria fortuna: è proprio questo il significato del disco, se ho capito bene.
«Corretto. Se dopo 40 anni siamo ancora insieme, non si può parlare di fortuna ma si deve parlare di lavoro, duro lavoro, di forza e coesione, ingredienti che ci hanno permesso di portare avanti il nostro progetto iniziale, continuando anzi a svilupparlo nel tempo. In alcuni momenti ci sono state visioni diverse, alcuni non le hanno condivise e hanno lasciato il gruppo, rimanendo comunque in buoni se non ottimi rapporti con noi due, pronti anche a dare una mano su alcuni progetti specifici, in studio o sul palco, a dimostrazione che i rapporti non erano soltanto professionali ma anche di amicizia».
«Noi due siamo lo zoccolo duro, quelli che tirano le fila e per fortuna, anche grazie a quelle che ci piace chiamare le nostre valvole di sfogo [alcuni progetti elettronici per Madaski e i Bluebeaters per Bunna] siamo sempre riusciti a trovare la giusta mediazione tra le nostre scelte musicali. Per quattro o cinque anni con noi ha suonato Max Casacci e non dobbiamo certo ricordarti noi che carriera ha avuto successivamente; lo stesso discorso, in tono leggermente minore, vale per il suo sostituto Ru Catania. La sezione fiati cambia spesso ma le persone, e pensiamo soprattutto a Paolo Angelo Parpaglione e Mr. T-Bone, tornano spesso a suonare nei nostri dischi. Tutto ciò rende gli Africa Unite un gruppo abbastanza aperto, cosa che ci è sempre piaciuta».
Gli album ormai sono più di venti: col senno di poi è possibile individuarne alcuni che per voi si sono rivelati, magari a posteriori, veri punti di svolta, che hanno dato il via a nuovi periodi artistici, senza che tutto ciò fosse pianificato a tavolino? Ovviamente non mi riferisco esclusivamente agli album di maggior successo commerciale, certamente importanti per il prosieguo della vostra carriera, ma a quelli che, ripensandoci, potete definire lavori che hanno segnato una crescita o almeno un cambiamento importante.
«Sì, anche se quasi sempre questi lavori coincidono coi cambiamenti all’interno del gruppo o coi cambi di etichetta discografica. I primi tre lavori sono magari più semplici ma ci hanno dato modo di crescere e di realizzare i tre successivi, vale a dire People Pie, Babilonia e Poesia e Un sole che brucia, i nostri manifesti indipendenti della prima metà degli anni Novanta».
«Poi ci fu il passaggio a una major, la Polygram/Universal, e la realizzazione de Il gioco, album non commerciale, al contrario molto personale, quasi intimo e poco attento al mercato».
«Dopo altri tre album siamo tornati indipendenti nel 2003 con Mentre fuori piove, un album duro, pesante dal punto di vista sociale. Poi, come spesso succede ai gruppi in attività da diverso tempo, abbiamo cominciato a diradare le uscite di materiale nuovo dando al contempo spazio a raccolte e album dal vivo. Ci piace comunque ricordare quella sorta di album sperimentale che fu In tempo reale, creato nel 2019 con e per gli Architorti, un quintetto d’archi anch’esso con base a Pinerolo».
«E adesso c’è il disco nuovo, un’altra ripartenza e asse portante della scaletta dei concerti del nuovo tour; le prime date sono andate benissimo, abbiamo fatto 4.000/5.000 spettatori a ogni concerto, a dimostrazione che, oltre a manifestare amore nei nostri confronti, dopo due anni oggettivamente difficili la gente ha voglia di musica dal vivo, condivisa con altre persone».
«Rispetto a dieci, venti anni fa, la musica non ha più un ruolo centrale nella nostra vita e in quella dei nostri ascoltatori; non è solo una questione di età ma soprattutto di modalità di fruizione: non si compra più il vinile, non si compra più il CD, ma la musica si ascolta tramite il cellulare. Non hai più un supporto fisico ma premi l’icona di Spotify, sperando che l’algoritmo sia clemente. Attenzione, anche noi abbiamo la nostra discografia su Spotify, l’abbiamo fatto dopo accese discussioni. Ci piace? No, ma le nuove generazioni hanno una fruizione della musica completamente diversa da quella che era la nostra. Se oggi vuoi farti ascoltare, devi accettare qualche compromesso».
Pinerolo…Sono pressoché certo che un gruppo originario di Abbiategrasso direbbe di essere di Milano, voi invece non avete mai detto di essere di Torino, ribadendo così con orgoglio l’appartenenza al vostro territorio.
«Certo, noi siamo un gruppo di Pinerolo. Questo però vuol dire che noi non eravamo pigri, siamo stati disposti a muoverci, a viaggiare, non solo per procacciarci i contratti o le date dei concerti, ma soprattutto per cercare scambi culturali, confrontare le nostre esperienze con quelle degli altri, che fossero a Torino, a Milano o all’estero. Vivere in una cittadina ci ha costretti a essere curiosi, a essere affamati di nuove esperienze. Tieni conto che il nostro rapporto con Pinerolo è piuttosto strano: in 40 anni qui abbiamo suonato solo due volte. Anticipiamo a te e a chi leggerà questa intervista che torneremo a suonare a casa il 2 settembre e che per noi sarà sicuramente una data speciale, nonché la terza. Abbiamo suonato tutti gli anni a Pordenone ma solo tre volte a Pinerolo: come dicevano i latini? Nemo propheta in patria».
«Abbiamo suonato tutti gli anni a Pordenone ma solo tre volte a Pinerolo: come dicevano i latini? Nemo propheta in patria».
«Tornando alle esperienze condivise, agli incontri fatti e alle influenze ricevute, non hai potuto non notare che nel disco nuovo compaiono due artisti la cui carriera artistica ci ha accompagnato in tutti questi anni: stiamo parlando di David Hinds degli Steel Pulse e Brinsley Forde degli Aswad. Abbiamo cercato di coinvolgere un altro artista, anche lui per noi grande fonte d’ispirazione, ma purtroppo si è ritirato e non è più disponibile a collaborazioni. Dai, prova a indovinare. Niente? Allora te lo diciamo noi: Linton Kwesi Johnson».
La chiacchierata continua ricordando concerti ed episodi del passato e mi rendo conto che in questi 40 anni, magari muovendosi sottotraccia, la musica degli Africa Unite è entrata comunque a far parte della colonna sonora di alcuni periodi della mia vita. E allora grazie e buon compleanno, naturalmente in levare!