1973: l’Occidente scopre il reggae

50 anni di Catch a Fire di Bob Marley (anche in un cofanetto speciale)

Catch a Fire
Articolo
pop

Il 1973 è l’anno in cui la Island pubblica Catch a Fire, il primo dei tre album – gli altri due sono Burnin’, uscito ancora per la Island solo sei mesi dopo il precedente, e African Herbsman, album targato Trojan, una compilation di brani prodotti da Lee Perry negli anni 1970/1971 (presi dagli album Soul Revolution Part II e Soul Rebels) con l’aggiunta di alcuni singoli non comparsi nei suddetti album e prodotti in autonomia dai Wailers - pubblicati quell’anno da un gruppo giamaicano chiamato Bob Marley and The Wailers.

– Leggi anche: Lee Scratch Perry in 10 canzoni

In origine l’album è stampato in 20.000 copie con una distribuzione forzatamente limitata ed è accreditato a The Wailers. Contenuto in una confezione memorabile a forma di accendino Zippo ideata dagli artisti grafici Rod Dyer e Bob Weiner, nelle versioni successive Catch a Fire presenterà in copertina il ritratto classico di Marley mentre fuma uno spliff, opera della fotografa Esther Anderson.

Cosa più importante, da qui in avanti la definizione del gruppo sarà sempre quella di Bob Marley and The Wailers e più avanti vedremo come si è arrivati a ciò.

zippo

L’album ottiene una vasta popolarità e ottime recensioni da parte della critica, culminate nel suo inserimento da parte della rivista Rolling Stone nella lista dei 500 album più grandi di tutti i tempi.

L’Occidente scopre il reggae – ma non io, all’epoca ancora un ragazzino impegnato in ascolti musicali ben più banali.

L’Occidente scopre il reggae – fa eccezione la sola Inghilterra che, grazie all’arrivo degli immigrati giamaicani e alla conseguente nascita dell’etichetta Trojan Records, già a metà degli anni Sessanta aveva familiarità con lo ska e il rocksteady, i padri putativi del reggae – ma non io, all’epoca ancora un ragazzino impegnato in ascolti musicali ben più banali.

Mi ci vorranno tre anni per incontrare la “musica in levare”: il 28 luglio 1976 una sentenza della Corte Costituzionale liberalizza definitivamente la trasmissione via etere in ambito locale, fornendo così copertura legale alle cosiddette radio libere che da quel momento iniziano a moltiplicarsi su tutto il territorio nazionale.

E proprio Bob Marley and The Wailers sono una delle presenze fisse nelle scalette delle radio libere torinesi, soprattutto coi brani “Positive Vibration”, “Cry to Me” e “Crazy Baldhead”, compresi nell’album Rastaman Vibration uscito il 30 aprile di quello stesso anno, e “Woman no Cry”, tratta da Live at The Lyceum dell’anno precedente: nasce un amore mai più interrotto che mi porta nel corso degli anni successivi a scoprire le produzioni targate Studio One e quelle con Lee Perry, i cui Upsetters divennero The Wailers, e a partecipare a quel rito collettivo che sarà il loro concerto torinese del 28 giugno 1980, dopo la data milanese della sera prima, considerata quella con la maggior partecipazione di pubblico nella storia del gruppo.

Se ne occupa anche la RAI, alla sua solita maniera, insufficiente.

Dopo aver suonato in giro per l’Inghilterra e registrato con Johnny Nash, la partenza per gli Stati Uniti di quest’ultimo lascia il gruppo senza il denaro sufficiente per tornare in Giamaica. I Wailers entrano in contatto con Chris Blackwell, fondatore della Island nonché produttore, che anticipa i soldi per un album e paga i biglietti aerei per tornare nell’isola caraibica dove il gruppo registra Catch a Fire.

L’album si compone di nove canzoni, due delle quali scritte da Peter Tosh e le restanti sette da Marley. Dopo il ritorno a Londra di quest’ultimo per presentare i nastri a Blackwell, il produttore – o, come ebbe modo di dire Lee Perry, “il vampiro” – rielabora i pezzi con il contributo del tastierista John “Rabbit” Bundrick e di Wayne Perkins, sessionman dei celebri studi Muscle Shoals, che suona la chitarra nelle sovraincisioni di due brani, convincendo il gruppo che questi cambiamenti hanno lo scopo di raggiungere il grado di successo che lui ha in mente.

Catch a Fire è dunque il primo album del gruppo per una major, quello che lo posiziona sulla strada verso la fama globale e che comincia a creare il mito di Marley.

La versione “inglese” dei Wailers ora suona un po’ troppo zuccherosa e delicata – per esempio i riff di matrice rock di “Concrete Jungle” e il suono metallico della slide guitar di “Baby We’ve Got a Date (Rock It Baby)”. Non di meno, in quel momento storico, la sottile trasformazione e l’affinamento del suono del gruppo funziona bene e, soprattutto negli Stati Uniti, l’album conquista il plauso che Blackwell aveva cercato per i Wailers. Due anni più tardi la Island avrà un approccio simile con Marcus Garvey di Burning Spear, un album rimixato per diluire il suono oscuramente roots del produttore Jack Ruby

La solida e propulsiva sezione ritmica fornita dai fratelli Aston e Carlton Barrett, gli schemi chitarristici in staccato di Peter Tosh e l’interazione di Neville O’Riley Livingston (aka Bunny Wailer), Tosh e Marley, evidenziano che in quel momento i Wailers sono davvero un gruppo e non semplicemente una band incentrata sulla figura di Marley.

wailers

Malgrado gli overdub, pezzi come “Stir It Up” e “Concrete Jungle” riescono a incapsulare efficacemente la varietà dei Wailers; il gruppo è capace di spensierate canzoni d’amore, ben inserite nella tradizione pop, e di canzoni che si occupano di giustizia sociale e della storia dell’oppressione che espandono gli orizzonti dell’idioma pop dei primi anni Settanta.

La prima è una canzone ipnotica già ben conosciuta in Giamaica come pezzo dei Wailers e prima canzone di successo per Marley al di fuori della sua patria. La incidono per la prima volta nel 1967 e nel 1972 il cantante statunitense Johnny Nash ne fa una versione che raggiunge il quindicesimo posto delle classifiche statunitensi e inglesi, probabilmente dando lo spunto a Marley per registrarla nuovamente per l’album imminente. I versi sono rassicuranti e sensuali e si dice che Marley abbia originariamente scritto questa canzone per sua moglie Rita. È la canzone più lunga dell’album – cinque minuti e 32 secondi di irresistibili elementi classici del reggae: chitarra funky, conga, tastiere e quel beat oscillante e continuo. Con tre soli accordi Marley e i Wailers srotolano quella che probabilmente rimane la più bella canzone d’amore mai fatta dal gruppo.

La seconda presenta una lunga introduzione, decisamente inusuale per una canzone reggae – facilitando così gli amanti del rock a entrare nell’atmosfera del pezzo grazie ai suoni familiari della chitarra elettrica, prima che il battito del basso e il classico ritmo one drop partano dopo una trentina di secondi. I versi della canzone contengono metafore riconoscibili che si interessano di oscurità e luminosità, richiamando alla mente passaggi estratti dalla Bibbia e molti aspetti della cultura caraibica e di quella occidentale.

Il reggae racconta la verità dal punto di vista della gente» – Bob Marley, intervista a Billboard

"Concrete Jungle" – abbreviato anche in Jungle – è il nome informale di un tristemente noto quartiere di case popolari costruito agli inizi degli anni Settanta ai confini di Trench Town, West Kingston. Con questo pezzo Marley fornisce il suo commento viscerale sugli aspetti dannosi della vita urbana, facendo luce al contempo sul posto davvero autentico dove vivono i suoi amici.

Ciò non di meno, 50 anni dopo la sua prima pubblicazione, una delle canzoni più belle di quest’album rimane “400 Years”, scritta e cantata da Tosh, un assaggio di ciò che raggiungerà come solista quando lascerà i Wailers nel 1974. 

In Catch a Fire, Marley e Tosh sono coraggiosi nel linguaggio e nell’abilità oratoria, sia che si lamentino per l’oppressione della gente nera, facciano appello per la rivolta contro la povertà o cantino canzoni d’amore. 

Nel marzo 2001 la Universal/Island aveva pubblicato Catch a Fire [Deluxe Edition], che conteneva la versione rimasterizzata del disco e quella, fino a quel momento non disponibile, “giamaicana”, nella quale era finalmente possibile apprezzare nella sua forma originale il suono snello e grezzo dei Wailers.

Adesso arriva una nuova edizione in occasione del cinquantesimo anniversario della sua pubblicazione. Le celebrazioni sono cominciate qualche mese fa con la scoperta della performance tratta dal concerto del 27 maggio 1973 al Sundown Theatre di Edmonton, North London, e pubblicata sulla pagina YouTube di Marley.

La versione su CD è composta da tre dischi, l’ultimo dei quali presenta tre brani tratti dal concerto di Edmonton appena citato e finora disponibili solo su bootleg – nella versione in vinile questi tre brani fanno parte di un 12” -, con l’aggiunta di otto canzoni, sei delle quali divise tra Jamaican Extended Version, Jamaican Alternate Version, Jamaican Extended Instrumental e Jamaican Extra Organ Version, mentre il secondo propone il concerto del 24 maggio 1973 al Paris Theatre di Londra, con otto brani tratti da Catch a Fire e due – “Rastaman Chant” e “Get Up, Stand Up” – che compariranno nel successivo Burnin’.

Neanche a dirsi, il primo CD contiene Catch a Fire, coi nove brani compresi nella versione del 1973.

All’interno della confezione è incluso un libro contenente immagini classiche di Marley, estrapolate da servizi fotografici in compagnia del collaboratore di lungo corso Arthur Gorson, durante due settimane trascorse insieme in Giamaica. Le nuove note di copertina sono state scritte dal famoso giornalista nonché scrittore Chris Salewicz.

È innegabile che durante le session per Catch a Fire le tensioni all’interno del gruppo comincino a montare. Il tentativo di Marley, avvenuto qualche tempo prima, di intraprendere una carriera da solista aveva lasciato dei segni e le differenze creative diventano più pronunciate. Allo stesso tempo i Wailers sono più popolari che mai, richiesti per esibizioni in molti Paesi al di fuori della Giamaica. Dopo un ultimo album insieme, Burnin’, Wailer e Tosh, in maniera separata, lasciano il gruppo. Marley mantiene il nome The Wailers, che però diventa quello della sua backing band, e il pieno controllo creativo della musica del gruppo. 

Col senno di poi Catch a Fire rappresenta la prima volta in cui Bob Marley comincia in maniera ufficiale a discostarsi dai Wailers. Sentendosi più a suo agio con il ruolo di autore principale e frontman del gruppo, il suo crescente desiderio di controllare il processo creativo lo aiuta a creare un disco più scuro, più politico e più influenzato dal funk di qualsiasi cosa il gruppo abbia fatto in precedenza.

È l’inizio di qualcosa di molto più grande, anche se rappresenterà anche l’inizio della fine per i Wailers come trio. Chissà se Bob Marley: One Love, il film che dovrebbe uscire nei cinema italiani il prossimo gennaio, racconterà qualcosa di questa storia o si limiterà a ricostruire gli anni del Marley superstar.

Catch a Fire ha il merito di tradurre il suono dei Wailers in un modo che, al netto di qualche eccezione già segnalata, preserva comunque l’integrità e l’essenza di quel suono e rende il reggae comprensibile e attrattivo per un mercato più vasto.

bob marley

P.S. Tre mesi fa la Universal/Island aveva pubblicato Africa Unite, un progetto reinventato dal cantante giamaicano Skip Marley, nipote di Bob, e dal Bob Marley estate, un tentativo tutto sommato elegante di gettare un ponte tra due generi musicali – il reggae e l’afrobeats – e un mezzo per connettere due diverse generazioni alla musica di Marley, un artista che durante la sua breve vita ha sempre avuto l’Africa come punto focale del suo attivismo, scrivendo canzoni sull’apartheid in Sudafrica e sulla povertà e sulla guerra nel resto del continente africano, ed esibendosi in Gabon, Zimbabwe ed Etiopia.

Dopo mesi di lavoro, lo scorso 4 agosto il progetto Africa Unite ha visto la luce: le dieci canzoni che compongono il disco sono il tentativo di rafforzare l’eredità di Marley e guadagnare ascoltatori attingendo dalle nuove generazioni, coinvolgendo artisti di grande fama provenienti dal Sudafrica, Ghana, Zimbabwe, Costa d’Avorio e Nigeria, tra cui voglio ricordare Rema, Tiwa Savage, Sarkodie e Patoranking.

Ultima segnalazione: Black Story è un’iniziativa discografica creata per raccontare la storia di artisti neri che hanno dato forma alla musica in U.K.  La Universal celebra non solo la cultura ma anche le scene, i suoni e gli artisti che hanno contribuito a formare la musica nera dell’Inghilterra nelle ultime sei decadi, ristampando su vinile dieci album: si parte da The Best of Millie Small del 1967 a Rise above Hate di Unknown T del 2020, passando per tre perle quali l’album d’esordio (1976) dei “leoni di Ladbroke Grove”, vale a dire gli Aswad, Forces of Victory (1979), il secondo album del dub poet Linton Kwesi Johnson, riproposto con un secondo album di dub versions and mixes che lo rende ancora più appetibile, e Mi Cyaan Believe It (1982) di Michael Smith, l’unico, bellissimo album inciso dal poeta originario di Kingston prima di essere ucciso all’età di 28 anni e prodotto dal già citato LKJ, disponibile in una versione contenente quattro brani in più.

«It a come, fire a go bun» - “It a come”, Michael Smith 

Se hai letto questo articolo, ti potrebbero interessare anche

pop

Una riflessione sulla vita di Quincy Jones, scomparso a 91 anni

pop

Che cosa non perdere (e qualche sorpresa) a C2C 2024, che inizia il 31 ottobre

pop

Fra jazz e pop, un'intervista con la musicista di base a Londra