Viva il Premio Parodi, sempre meno premio
Reportage dal Premio Parodi 2019 di Cagliari: ha vinto Fanfara Station, ma la gara conta sempre meno (e meno male)
Un altro anno è passato, e siamo di nuovo a parlare del Premio Parodi di Cagliari – «l’unico contest in Italia riservato alla world music», che forse l’unico non è, e che forse non è veramente un «contest», ma che certo è diventato appuntamento fisso da segnare in agenda per quelli che si occupano di certe musiche.
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Un altro anno è passato, e ormai a ogni edizione si accumulano le recensioni, le riflessioni, le previsioni. Molte confermate, altre smentite: il Premio Parodi è cresciuto, si è affermato sulla scena nazionale, ha oramai una sua storia e un suo storico, a disposizione di quanti vogliano indagare nelle vicende della sempre famigerata “world music” in Italia.
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Che cosa è cambiato, in questi anni? Innanzitutto, la qualità media dei partecipanti – ed è un dato riscontrato da tutti gli operatori presenti – si sta alzando. A differenza di buona parte dei premi e premietti in giro per l’Italia, cioè, ormai al Parodi non vanno solo i cosiddetti “esordienti” ma partecipano musicisti affermati, che vengono selezionati da una rosa di proposte che è sempre più ampia. (Avendo partecipato alla selezione, posso testimoniare che sono rimaste fuori cose altrettanto valide di quelle ascoltate nella fase finale).
Il Premio – mi pare – assomiglia sempre di più a uno showcase festival e sempre meno a un «contest» (e grazie a dio, viene da dire). Come ho avuto modo di argomentare in passato, è l’obiettivo che dovrebbero porsi tutti quelli che lavorano per la promozione di generi “di nicchia”, se voglio dare veramente spazio ai musicisti; il Premio Parodi ci sta arrivando (come altri: ad esempio Folkest, che pure sta modificando la sua formula in quella direzione), e c’è da rallegrarsene. Come conseguenza, la gara va perdendo importanza poco a poco (ancora: grazie a dio) e aumenta l’importanza dell’esserci, dell’incontrarsi, del parlare, del proporsi, del “fare affari”.
Lettera aperta sui Premi musicali
Siano o meno queste cose collegate, l’aumento della qualità ha coinciso – quest’anno – con una netta maggioranza di proposte internazionali, smentendo una criticità del Premio Parodi nelle passate edizioni, più volte denunciata: ovvero, la centralità di proposte che puntavano su una “semplice” canzone d’autore in dialetto o in lingue minoritarie, tralasciando la ricerca musicale. In parallelo, mi pare, l’etichetta di “world music” appare sempre più vecchia e usurata (e non è detto che sia un male): se devo giocarmi una profezia, scomparirà dall’uso nel corso del prossimo decennio.
Ma veniamo al racconto di questa dodicesima edizione.
Spostato (per lavori in corso) dalla consueta cornice dell’Auditorium Comunale al più grande Auditorium del Conservatorio, il Premio ha scelto, un po’ per necessità, di puntare su ospiti di maggior “peso specifico” in cartellone: oltre al progetto LinguaMadre (Duo Bottasso, Davide Ambrogio e Elsa Martin, in coproduzione con Premio Loano e Mare e Miniere) e ai vincitori dell’anno scorso, La Maschera, c’erano infatti Tosca (raffinata e misurata), Moni Ovadia (un po’ appannato nella sua narrazione-monologo, non perfettamente a fuoco) e Simone Cristicchi (decisamente troppo sopra le righe a voler omaggiare Andrea Parodi, con il risultato di essere solo stucchevole).
In ogni caso, l’attenzione era tutta sui concorrenti, e – come detto – il livello era molto alto.
Hanno vinto – meritatamente – i Fanfara Station, che hanno portato a casa anche il Premio della critica e la menzione per il miglior arrangiamento. Il trio di Marzouk Mejri – tunisino di base a Napoli da quasi vent’anni, ben noto anche per le molte collaborazioni (da Daniele Sepe a James Senese) non si inventa in realtà niente di nuovo, ma lo fa benissimo. “Rahil” – il brano in gara – appoggia un cantato in tunisino a una base di darabouka, fiati (l’americano Charles Ferris) ed elettronica (Marco Dalmasso, alias Ghiaccioli e Branzini), sovrapposti con loop dal vivo. Il livello tecnico dei musicisti consente un mix tra live e basi davvero brillante (le loop station possono essere un’arma a doppio taglio, se non le si sa usare più che bene) e il risultato è irresistibile. Bellissima anche la cover di Andrea Parodi (“Balai”), tradizionale “sfida” del secondo giorno di Premio, che diventa un downtempo arabo quasi-dub.
In realtà, per quanto meritata sia la vittoria di Fanfara Station, altri avrebbero potuto aggiudicarsi il premio senza creare scandalo. Spiccano su tutti i napoletani Suonno d’Ajere (già avvistati al Premio Folkest Alberto Cesa 2019, dove avevano vinto), gratificati dalla menzione della giuria internazionale e da quella per la migliore interpretazione: voce, mandolino/mandoloncello e chitarra, sulle tracce di una canzone napoletana classica e acustica che suona davvero senza tempo. Un progetto che non ha paura di essere minimale, di togliere, di asciugare, interessante soprattutto per come trova una terza via tra il folk post-NCCP e il revival più classico della canzone napoletana d’autore. Da tenere d’occhio.
Incassano invece una menzione speciale della Fondazione Andrea Parodi i polacchi Krzikopa, progetto folk-prog dalla Slesia che forse non rende al meglio in teatro, ma che su palchi più grandi è – garantisco – davvero trascinante, tra ritmi dispari, break tamarri e pose da rocker.
Poco sotto, quasi tutti gli altri concorrenti. Bella la proposta in solo dello scozzese Elliott Morris, cantante e chitarrista con uno stile che affonda le radici nel folk alla John Martyn. La sua “The End of the World Blues” – premiata con la menzione per la miglior musica – non sconvolgerà i canoni del folk inglese, ma è un’ottima canzone, ben scritta e ben suonata (e anche la traduzione inglese di “Soneanima” conferma le sue qualità di interprete).
Pure in solo – ma supportato da se stesso sovrapposto in loop – è Arsene Duevi, togolese da anni di base a Milano (e con una solida fanbase in Sardegna, a giudicare dall’accoglienza fuori dal teatro). La cifra del suo progetto è proprio l’improvvisazione intorno all’uso della voce: nel contesto del Parodi, forse, viene penalizzato dal troppo gigioneggiare (che gli garantisce comunque il premio dei ragazzi e quello dei concorrenti, deciso da tutti i partecipanti) ma si parla comunque di un progetto solido e di alto livello. Così come solida è la proposta di Setak (alias Nicola Pomponi), l’unico “cantautore” in senso classico di questo Premio Parodi, che canta in abruzzese (lingua poco battuta dalla canzone d’autore) sul tappeto di una bella band folk-rock molto classica, dal bel suono tondo e morbido. Ben azzeccata, quasi da manuale, la sua versione di “Pandela”, giocata su un lento crescendo fino all’esplosione finale, che gli è valsa la menzione per la migliore cover di Andrea Parodi: nessuno fuoco d’artificio o invenzione, ma rispetto del brano e mestiere. Ogni tanto ci vuole pure quello (e il disco, Blusanza, è consigliatissimo).
Manca invece un po’ di mestiere a Federico Marras Pierantoni, che presenta una canzone bellissima, con un testo in sardo turritano brillante e pieno di giochi fonici (non a caso vincitore della menzione dedicata) e interpretata con personalità e carisma. Parlando di forma-canzone, forse il brano migliore in gara. La tira giù l’arrangiamento ipertrofico, complice qualche problema tecnico (che purtroppo, con 8 persone sul palco, è da mettere in conto). Pianoforte e voce, “Canzona di Mari n. 2 – Fóggu e fiàra” sarebbe diventato un pezzo alla Weill (e anche il provino, con il solo basso, era affascinante). Aspettiamo la versione definitiva su disco, che pare sia in arrivo.
Interessante il progetto A.T.A – Acoustic Tarab Alchemy, con la voce di Houcine Ataa (già con l’Orchestra di Piazza Vittorio), il pianoforte di Gaia Possenti, le percussioni di Simone Pulvano e il contrabbasso di Bruno Zoia. La loro idea di suono incanta, così come certe modalità di far “parlare” tra loro il pianoforte e la melodia del canto sufi, e certi incastri-contrasti che ne derivano, ma nel brano presentato dal vivo a Cagliari qualcosa non funziona, forse per la sezione ritmica troppo presente: meglio consolarsi con il cd (uscito per Odradek e distribuito in tutto il mondo). Una leggera sensazione di incompiutezza nel live lasciano pure la cantante e autrice Saly Diarra, senegalese di stanza in Sardegna – interprete di una canzone in lingua bambara minimale e delicata – e il progetto Maribop, che unisce un cantante siciliano (Francesco Giglio) e un irlandese (Peter Walsh) che suona la lap steel.
Rimane comunque, anche qui, la voglia di approfondire, di sentire altro: quasi mai basta una canzone per capire il lavoro di un musicista. È la maledizione dei Premi, lo si è detto – ma al Parodi ci stanno lavorando.
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