Violetta in televisione, ma quanto teatrale!
Dall’Opera di Roma La Traviata con la regia di Mario Martone e Daniele Gatti sul podio, protagonista Lisette Oropesa
Questa Traviata dal Teatro dell’Opera di Roma riprende le linee guida del Barbiere di Siviglia realizzato quattro mesi prima, sempre con la direzione di Daniele Gatti e la regia di Mario Martone. Ma, se gli ingredienti sono gli stessi, cambia molto il modo in cui sono miscelati, così come molto diversa è la Traviata dal Barbiere. Questa volta si tratta di un vero e proprio opera-film, totalmente pensato e realizzato per le telecamere. Aver avuto la possibilità di assistere alla fase finale delle prove è stato sufficiente per accorgersi che il metodo di lavoro era proprio quello di un set cinematografico: ogni inquadratura durava al massimo due o tre minuti, spesso pochi secondi, con continue interruzioni e ripetizioni richieste dal regista. L’orchestra e i cantanti dovevano fermarsi e ripetere da capo più e più volte i vari frammenti della stessa scena, spesso non secondo l’ordine che tali frammenti hanno nell’opera ma secondo le necessità dettate dalla ripresa cinematografica. Della complessità di tale sistema deriva il ruolo determinante del successivo montaggio – momento fondamentale nella nascita di ogni film – che ha richiesto quasi due mesi di lavoro a Martone e alla sua équipe.
Quando si dice opera-film si pensa ad un’opera portata fuori dalle mura del teatro e filmata in un’ambientazione il più possibile realistica, fino agli estremi della Tosca nei luoghi di Tosca, girata esattamente nei luoghi indicati nel libretto, Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo. Invece nella Traviata di Martone il teatro è ben presente, anzi è più che mai protagonista, infatti tutto, tranne un paio di brevissime sequenze, si svolge interamente all’interno del teatro, nella platea, nei palchi, nel foyer, nelle scale e nei corridoi, talvolta perfino sul palcoscenico. Le scene sono le mura del teatro stesso, quindi non ci sono praticamente scene, tranne un grande letto presente in ogni atto, un tavolo e poco altro. Ma l’elemento scenografico di maggior impatto è il grande lampadario di sei metri di diametro che scende dal soffitto fino ad incombere sulle teste dei cantanti, ma anche questo è una parte del teatro stesso.
Forse allora non lo si può definire col vecchio termine di opera-film, nonostante sia stato girato con quelle modalità, ma è piuttosto "teatro che si scioglie in cinema, che cambia il suo stato fisico e diventa fluido, penetrando nelle pieghe della partitura, cogliendone ogni elemento drammaturgico", come ha detto Martone stesso.
A Martone non interessano inutili ammodernamenti (i costumi sono di foggia ottocentesca, con qualche minima libertà, e sono stati ripescati nei magazzini del teatro) né audaci interpretazioni e altre amenità (Violetta non si lascia andare a gesti di molto intima familiarità con Annina, come la Marescialla con la sua cameriera nel recente Rosenkavalier messo in scena a Monaco di Baviera da Barry Kosky). Insomma la sua è una regia fondamentalmente tradizionale. Nuovo è il modo di proporla.
Si può dire che il lavoro di Martone consista principalmente nell’ “orchestrare” gli spazi in cui si muovono solisti, coro, danzatori, figuranti e – grazie alle telecamere - gli spettatori stessi. Lo spettatore non osserva dall’esterno, ma è trasportato all’interno della Traviata e viene coinvolto nell’azione, ora è faccia a faccia con i protagonisti, ora riesce appena ad evitare di urtare i personaggi che affollano le feste in casa di Violetta e di Flora. Insomma è all’interno dell’opera, si trova immerso nella stessa atmosfera febbrile, dionisiaca e morbosa vissuta dai protagonisti, prova la stessa sensazione che la vita sfugga inesorabilmente tra le dita. Questo avviene con grande fluidità, tutto sembra realizzato con facilità e naturalezza totali, non si ha la percezione che sia – come è in realtà - un risultato raggiunto con un lungo lavoro e con un’assoluta padronanza del mestiere di regista, quale Martone ha, in quanto grande regista nei tre diversi campi dell’opera, del teatro e del cinema.
La parte visiva è preminente, come impone il mezzo, anche perché il televisore di casa, nonostante gli altoparlanti ausiliari, non garantisce un audio ideale. L’orchestra resta sempre in sottofondo, ma questo non impedisce di apprezzare il ruolo fondamentale per la riuscita complessiva di Daniele Gatti, che accompagna l’ascoltatore ad andare oltre il primo superficiale approccio, grazie allo stacco di tempi talvolta personali, ma sempre ben motivati e molto teatrali, e alla messa in luce di insoliti e sottili dettagli orchestrali, altrimenti destinati a restare sempre in ombra. Com’è giusto che sia in opere di quell’epoca, il direttore non si erge a invadente protagonista ma governa attentamente tutto e dà un contributo prezioso all’eccellente esito complessivo.
Lisette Oropesa ha le phisique du rôle e indossa alla perfezione le vesti di Violetta. La tecnica vocale è immacolata e qualche sbandamento appena avvertibile era sicuramente dovuto al continuo stop and go delle riprese, non soltanto molto faticoso ma anche d’ostacolo al mantenimento della necessaria concentrazione in ogni istante. La sua prova non presenta il fianco a critiche e, se c’è qualche limite, i pregi sono nettamente superiori. Fondamentalmente è un soprano lirico leggero e anche per questo - ma non solo per questo - riesce a rendere perfettamente i continui passaggi da un sentimento all’altro nella grande scena che chiude il primo atto, che manda in crisi tante Violette. Invece, quando il ruolo si fa drammatico, si potrebbe desiderare una voce di maggiore spessore, con una più ricca gamma di colori, ma l’interprete fa dimenticare tale limite, anche nella commovente scena della morte di Violetta. Forse si poteva sperare qualche brivido in più in “Non sapete quale affetto” e in “Amami, Alfredo”, ma questo rientra nei pro e contro di un’interpretazione moderna, basata sulle sottili sfumature psicologiche e sulle continue gradazioni degli affetti più che sui grandi sfoghi melodrammatici. Non è un caso che la Oropesa sia la Violetta oggi più richiesta dai grandi teatri, da New York a Londra.
Si è abituati a tenori verdiani dalla voce più carnosa di quella di Saimir Pirgu, eppure il suo Alfredo, che potrebbe apparire fin troppo misurato come tenore di un melodramma ottocentesco, è totalmente adeguato alla rigida educazione repressiva impartitagli da un padre severo, distaccato e impenetrabile ad ogni sentimentalismo come Giorgio Germont, magistralmente interpretato da Roberto Frontali.
Tra i comprimari, in parte rodati professionisti e in parte quasi debuttanti del progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, meritano una speciale segnalazione l’ottimo Barone Douphol di Roberto Accurso e la promettente Annina di Angela Schisani.
La trasmissione su Rai3 ha avuto quasi un milione di spettatori (oltre un milione e quattrocentomila nel momento di punta) e sicuramente molti altri ne avrà lo streaming su Raiplay.it
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