Violetta alla ricerca di se stessa
A Cremona il debutto un poco travagliato di un nuovo allestimento de La traviata, con l’interessante direzione musicale di Enrico Lombardi
È una Violetta spaesata, vagante in “quel popoloso deserto che appellano Parigi” alla ricerca della propria identità – personale, sociale, sessuale – quella che abbiamo visto muoversi sul palcoscenico del teatro Ponchielli di Cremona in occasione del debutto di questa nuova produzione de La traviata di Giuseppe Verdi. Un allestimento che ha visto il teatro cremonese capofila nell’ambito di una coproduzione dei teatri di OperaLombardia e Fondazione Rete Lirica delle Marche, per uno spettacolo guidato dalla direzione musicale di Enrico Lombardi e segnato dalla regia di Luca Baracchini, quest’ultimo risultato vincitore, con il suo giovane team creativo, del bando Under35 per il progetto di regia del titolo per lo stesso Circuito OperaLombardia 2022/23.
Partiamo quindi dalla lettura proposta da Luca Baracchini, la quale si dichiarava, fin dalle note di regia ospitate nel libretto di sala, intenta a rendere la poltrona dello spettatore «un po’ meno comoda. Vorrei che smettessimo – annota Baracchini – di accontentarci di un epilogo retorico e moralmente accomodante, in cui una “Maddalena” redenta ascende al cielo come una pudica vergine. Se Traviata è viva – prosegue il regista –, oggi come centosettant’anni fa, chi vi assiste deve provare la contraddizione fra un pregiudizio che l’accompagna e un racconto che lo mette a nudo, davanti all’essere umano».
Una contraddizione qui risolta nell’ipotesi di una Violetta combattuta nella sua identità sessuale, accompagnata nei tre atti da un mimo alter-ego che, da iniziale ideale specchio della propria anima, diviene plastica rappresentazione, all’inizio dell’ultimo atto, di un travaglio, anche fisico, lacerante: quello di un uomo che si evira per divenire donna (ma il dramma dell'identità di genere può essere naturalmente anche inverso).
In questa prospettiva sta forse la cifra un poco ingenua della lettura di Baracchini la quale, nel voler “attualizzare” – si fa per dire – le derive scandalistiche in evocazioni di pratiche sado-maso, bondage e diverse varietà di personaggi transessuali e travestiti, perde di vista ciò che lo stesso Verdi aveva infuso nella sua Traviata: «A Venezia faccio la Dame aux Camelias che avrà per titolo, forse, Traviata. Un soggetto dell’epoca. Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi, e per altri mille goffi scrupoli… Io lo faccio con tutto il piacere». In questa lettera a Cesare De Sanctis del gennaio 1853 il compositore evidenzia uno sguardo critico sulla società nella quale vive – i “costumi”, i “tempi” – e che riamane attualissimo: la decadenza morale di una borghesia ricca, annoiata, corrotta e moralmente bolsa la quale, dietro il paravento di presunte perversioni sessuali da condannare – apparentemente – senza appello, esorcizza – e quindi nasconde – la propria debole pochezza etica e umana. In questo modo una parte del pubblico può contestare il “travestito” perché di cattivo gusto – o peggio, perché “questo non è Verdi” – ma far finta di nulla di fronte al marito che tradisce la moglie – e viceversa – negandolo ipocritamente o di fronte al denaro che compra la dignità delle persone e il buon nome delle cosiddette “famiglie per bene”, e così via.
Un quadro che ha trovato spazio in una dimensione scenica disegnata dal regista – con la collaborazione di Francesca Sgariboldi (scene), Donato Didonna (costumi) e Gianni Bertoli (luci) – tra locali da ballo al neon vagamente anni Ottanta e case di campagna dagli arredamenti minimali stile Ikea nel complesso funzionali – così come i movimenti di scena – alla contestualizzazione drammaturgica della vicenda.
In questa prospettiva è emersa l’interessante lettura musicale offerta da Enrico Lombardi, caratterizzata da un lato da un segno interpretativo che recuperava certi abbellimenti vocali, dall’altro da una scelta dei tempi marcati nel complesso con un passo efficacemente serrato, attraversato peraltro da respiri più dilatati in alcune circostanze quali, per esempio, “Di Provenza il mare e il suol” – che ci ha ricordato la definizione del Caponi rievocata da Mila come aria «uggiosa e interminabile», ma per più per la natura del brano che per la direzione – o “Addio del passato”, con una Violetta sospesa in un arco espressivo forse troppo disteso.
Rimane la cifra decisamente apprezzabile della lettura di Lombardi capace, oltre che di restituire uno sguardo personale a un titolo così conosciuto, di tenere assieme la compagine orchestrale de I Pomeriggi Musicali di Milano e quella vocale del coro OperaLombardia – preparato da Massimo Fiocchi Malaspina – con polso sicuro, nonostante alcuni assestamenti nell’andamento di assieme che verranno probabilmente superati nelle successive tappe – Como, Brescia, Pavia – che seguiranno questo debutto cremonese.
Sul piano vocale buona prova per la Violetta di Francesca Sassu – impegnata nella “prima” del 2 dicembre – e dell’Alfredo di Valerio Borgioni, mentre il Germont padre di Vincenzo Nizzardo è parso solido ma espressivamente non sempre a fuoco. Ben assortite le voci di Flora (Reut Ventorero) e Annina (Sharon Zhai), adeguati il Gastone di Giacomo Leone, il Barone Douphol di Alfonso Michele Ciulla, il Marchese d’Obigny di Alessandro Abis e il Dottor Grenvi di Nicola Ciancio. Completavano il cast Ermes Nizzardo (Giuseppe) e Filippo Quarti (domestico di Flora, un commissario).
In occasione della “prima” il pubblico da tutto esaurito presente al Ponchielli ha applaudito in modo particolare tutti gli artisti impegnati sul versante musicale, riservando alcuni dissensi alla regia oltre che agli attori chiamati a recitare il ruolo di mimi travestiti, contestazione quest’ultima francamente fuori luogo perché rivolta non all’idea registica di per sé, ma ai professionisti presenti sul palcoscenico per svolgere il proprio lavoro.
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