Una Sonnambula da sogno
Roma: per la regia l’opera di Bellini è un sogno, ma a far veramente sognare è la realizzazione musicale
I registi attuali con le loro idee bizzarre - ma non sempre originali, perché ormai cominciano a ripetersi – obbligano ad iniziare proprio da loro ogni resoconto di uno spettacolo operistico, anche quando l’aspetto più memorabile è quello musicale, come in questa Sonnambula. I registi in questo caso sono due, Jean Philippe Clarac e Olivier Deloeuil, che lavorano in coppia sotto il nome Le Lab e provvedono anche alle scene e ai costumi. Come va di moda quest’anno, l’inizio dell’opera è preceduto da un filmato di alcuni minuti, che ci mostra la protagonista vagare di notte per alcuni luoghi iconici di Roma e raggiungere l’albergo adiacente al teatro Costanzi, dove soggiornarono tanti miti dell’opera, da Verdi alla Callas. E lì - proprio nella stanza della Callas, trasformata in un piccolo museo con foto e manifesti degli spettacoli cui la Divina partecipò a Roma - alloggia Amina, che vi entra, inghiotte qualche pasticca, beve un po’ di liquore e quindi cade in un sonno profondo: dunque Amina non è sonnambula e tutta l’improbabile vicenda escogitata da Scribe e trasformata in libretto da Felice Romani non è che un brutto sogno indotto dal mix di psicofarmaci e superalcolici. Niente di particolarmente nuovo: se la vita è sogno, ancor più lo è un’opera che ruota intorno ad un caso di sonnambulismo.
Quando si passa alla messa in scena vera e propria dell’opera di Bellini, compare un ambiente moderno, com’è ormai la regola: una vasta sala, con al centro un grande tavolo e alle pareti alcuni schermi su cui scorrono filmati e foto. Vi si raduna una piccola folla di persone vestite a festa, con abiti di oggi ma di un gusto un po’ paesano e antiquato. Data quest’ambientazione, la vicenda di Amina potrebbe svolgersi in qualsiasi parte del mondo ma a ricordarci che siamo in Svizzera c’è una grande bandiera, di cui a questo punto si poteva anche fare a meno. Qualcuno può storcere il naso, ma in realtà questa regia non entra a gamba tesa nell’opera e non ne violenta la trama, semmai cerca di renderla più mossa e varia, introducendovi tante - forse troppe - piccole idee, alcune indovinate e altre meno. Ma sono fondamentalmente giuste le linee guida di Le Lab, cioè eliminare lo stucchevole idillio del villaggio immerso tra le montagne e accentuare invece da una parte gli aspetti brillanti da “dramma giocoso” e dall’altra quelli delicati e malinconici tipicamente belliniani. Particolarmente apprezzabile l’idea di dare maggior rilievo ad un personaggio inquietante come Lisa, che, con il suo vestito e la sua anima entrambi nerissimi, diventa il contraltare della liliale e indifesa Amina e una sua temibilissima rivale, che tenta in ogni modo di dare alla vicenda una svolta negativa ma fallisce sempre. In definitiva questa regia introduce qualche tocco di modernità ma non stravolge l’opera, eppure ha suscitato un boato di disapprovazione – di prammatica quando si tratta di una regia moderna – al momento in cui i suoi artefici sono apparsi alla ribalta.
Indiscutibile invece la qualità musicale di questa produzione. Sul podio stava Francesco Lanzillotta, che nelle opere del periodo del belcanto non ha rivali (ma il suo repertorio è molto più ampio e vario). In genere si tende a sottovalutare l’importanza dell’orchestra in Bellini, invece la sua semplicità non è affatto banalità ma purificazione da tutto ciò che è superfluo. Va diretta con grande attenzione e sensibilità, per riscattarla dai routinier dei tempi passati e dalle tantissime alterazioni che vi venivano apportate fino a tempi recenti. L’edizione critica ha rivelato come la partitura autentica belliniana sia molto più fine di quel che si credeva, perfino cameristica nella sua attenzione alle suggestioni di ogni timbro. Lanzillotta lo dimostra stupendamente. Chiede talora all’orchestra sonorità piene ed empito drammatico ma più spesso delicata sensibilità nell’avvolgere le voci: così l’orchestra non si limita a un mero accompagnamento e diventa un complemento fondamentale delle ampie e splendide melodie belliniane, che raggiungono la loro perfezione proprio grazie alle sfumature e ai colori delicati apportati dell’orchestra. A questo Lanzillotta aggiunge quelle lievi oscillazioni di ritmo e di respiro insite nel canone belcantistico. Un esempio indimenticabile della complementarietà di voce e orchestra in Bellini è stato il momento più sublimemente semplice ed emozionante dell’opera “Ah, non credea mirarti”, in cui l’unione dell’orchestra di Lanzillotta e della voce di Lisette Oropesa è stata meravigliosa.
La Oropesa è un’Amina deliziosa, ingenua e tenera ma non manierata, anzi resa molto autentica e viva dalla toccante alternanza di momenti intensi di malinconia, felicità, drammaticità ed esultanza. Il suo timbro è particolare, comunicativo e simpatico, il suo stile e la sua tecnica sono inappuntabili. Per la cronaca si segnalano due piccole defaillances nel pirotecnico finale, dovute probabilmente alla stanchezza. John Osborn (Elvino) possiede totalmente la maestria tecnica e il controllo stilistico ideali per il belcanto e ora la sua voce è anche più calda e sfogata, all’italiana, ma senza eccessi. Gli acuti sono sempre al loro posto, però meno facili e naturali di altre volte, talora anche un po’ sforzati. Roberto Tagliavini col suo bel timbro caldo e rotondo di basso cantante è un ottimo Conte Rodolfo, amabile e cordiale.
A questo trio di eccellenti protagonisti si è aggiunta Lisa – che è diventato un personaggio centrale, non soltanto ad opera dei registi, perché già lo era per Bellini stesso – affidata alla presenza scenica e alla voce di Francesca Benitez, interprete brillante e perfettamente a suo agio nel registro acuto su cui insiste la sua parte. La Teresa di Monica Bacelli era un vero lusso. Bene anche l’Alessio di Mattia Rossi, del progetto “Fabbrica” per giovani artisti del Teatro dell’Opera. La piccola parte del Notaro era affidata a Giordano Massaro, tenore del coro. Ottime infine le prove del coro, preparato da Ciro Visco, e dell’orchestra.
Applausi calorosi e prolungati, turbati alla fine – come già detto - dal rumoroso dissenso per gli artefici della messa in scena.
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