Un nuovo congedo per Sciarrino
In prima assoluta al Teatro Malibran di Venezia Distendi la fronte a chiusura di Luci mie traditrici del compositore siciliano
Da diverse stagioni il settembre del Teatro La Fenice parla anche la lingua del contemporaneo. Mentre sulla scena maggiore tornano in scena in alternanza tre grandi classici del melodramma italiano (Il barbiere di Siviglia, Madama Butterfly e Tosca ), nel più raccolto spazio del Teatro Malibran si presenta Luci mie traditrici di Salvatore Sciarrino.
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A poco più di vent’anni dal debutto, questo titolo fortunatissimo del compositore siciliano arriva per la prima volta a Venezia arricchito di un finale inedito o piuttosto di un “congedo” secondo la definizione dello stesso autore. Sceglie la forma di un madrigale a cinque voci, in sintonia con le radici “antiche” di Luci mie traditrici ma in contrasto di tono con l’efferatezza della scena che chiude l’opera. Mentre ancora sul letto giacciono i cadaveri sanguinanti della Malaspina e dell’Ospite, con uno scarto meta-teatrale Distendi la fronte, come il finale del Don Giovanni mozartiano ma senza il fondo moraleggiante, invita lo spettatore a prendere distanza da quella materia e a lasciare la rappresentazione con animo rasserenato pur senza dimenticarne l’orrore: “Così l’orrore che fu visto / Non ci sporchi di sangue / Ma sia tutto dato alla memoria.” Un simile contrasto si ascolta anche sul piano musicale nel quale il tenue legame con il tema madrigalistico riproposto in disfacimento progressivo in tre passaggi chiave dell’opera, torna nel congedo rischiarato da una strumentazione più luminosa rispetto a quella notturna dell’opera. L’inquietudine dei giardini e delle stanze cupe dei Malaspina che è fatta di suoni vuoti e soffiati viene dissolta nei radiosi arabeschi del flauto e dei fiati.
Questa prima esecuzione di Luci mie traditrici in versione estesa è servita in maniera magistrale al Malibran dal complesso di eccezionale spessore degli strumentisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice, guidati in una lucidissima e teatralmente tesissima esecuzione dal magistrale braccio sciarriniano di Tito Ceccherini. Molto riuscite anche le prove dei cinque solisti in scena, dall’espressiva coppia dei Malaspina dell’inquieta Wioletta Hebrowska e del sanguigno Otto Katzameier all’enigmatico ospite disegnato con intrigante lirismo di Carlo Vistoli, mentre meno penetrante è sembrato l’insinuante servo della casa secondo Leonardo Cortellazzi e Livia Rado esce davvero solo nel congedo più che nell’elegia del prologo fuori scena.
L’allestimento di Valentino Villa con le scene di Massimo Checchetto e i costumi di Carlos Tieppo punta efficacemente su un realismo magico alla Magritte con interni borghesi invasi da piante e misteriose figure col volto coperto da maschere di upupa, uccello dalla simbologia multiforme e generalmente mortifera. Molto efficace nel costruire la tensione nella scansione dei diversi quadri, lo spettacolo appare meno incisivo nel cruento scioglimento del finale e soprattutto nell’attenuare il contrasto fra opera e congedo, depotenziando l’impatto drammaturgico di quest’ultimo, con il coro dei vivi e morti riunito attorno al talamo sul quale si è appena consumato il delitto d’onore.
Accoglienza calorosa.
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