Un marziano a Roma o Un romano a Marte?
Prima assoluta dell’opera di Vittorio Montalti, liberamente ispirata a un racconto di Ennio Flaiano
La storia di Un romano a Marte, rappresentata ora in prima assoluta dal Teatro dell’Opera sul palcoscenico del Teatro Nazionale, comincia vari anni fa, durante la stagione 2013-2014, quando il teatro bandisce un concorso per il progetto di una nuova opera, che viene vinto dal giovane (compositore Vittorio Montalti e dal più maturo “librettista” Giuliano Compagno con un’opera che, come si intuisce già dal titolo, in qualche maniera è tratta o deriva o fa riferimento o allude (o come altro si voglia dire) a “Un marziano a Roma”, il racconto che Ennio Flaiano scrisse nel 1956 e da cui trasse una commedia nel 1960. Indubbiamente è stuzzicante questa storia del marziano che atterra con la sua astronave a Roma e suscita dapprima un enorme scalpore ma presto, svanito l’effetto della novità, viene messo da parte e dimenticato. Ne sarebbe potuta nascere un’opera satirico-fantascientifica, insomma una moderna opera buffa, tutt’altro che estranea alla vena del compositore romano, che ha esordito nell’opera nel 2013 con L’aumento, basata su un racconto di Perec, a cui sono seguiti Ehi Giò, che ha come protagonista Rossini, e Le leggi fondamentali della stupidità umana, che prende spunto dal famoso pamphlet di Carlo M. Cipolla: dunque tutti soggetti ironici e surreali, con risvolti comici ma anche amari, proprio come il racconto di Flaiano.
Non sappiamo se dipenda anche da questioni di diritti d’autore, ma Un romano a Marte non è una trasposizione del racconto di Flaiano - d’altronde il titolo lo lascia intendere - bensì una serie di variazioni molto libere sul tema. Si inizia con un dietro le quinte del Teatro Lirico di Milano, la sera del 23 novembre 1960, quando la prima della commedia Un marziano a Roma venne rumorosamente contestata dal pubblico. Si passa poi alla Roma della dolce vita e in seguito si arriva alla “sala delle parole perse”, ovvero “un antro abbastanza inquietante dove le parole piene vanno perdendosi e trasformandosi nel loro opposto. Lo spazio viene occupato da una terminologia di basso profilo”: così la didascalia del libretto di Compagno. Questo momento rappresenta una cesura nell’opera, da allora in poi scompaiono Flaiano, Ilaria Occhini, il marziano Knut e il loquace Critico, che erano i protagonisti della prima e più ampia parte, e con un salto spazio-temporale si arriva in due luoghi e in due epoche lontani tra loro, la Bulgaria della guerra di liberazione contro i turchi e la Roma della Resistenza, che si sovrappongono tra loro: una poesia di Hristo Botev, poeta ed eroe bulgaro, ucciso nel 1876 in una rivolta contro i turchi, viene letta da Caterina Martinelli, una donna romana uccisa dai fascisti nel 1943 mentre tornava a casa dopo aver assaltato un forno insieme ad altre donne per procurarsi il pane per i suoi sei figli. Nell’ultima scena compare il poeta Tonino Guerra (proprio lui, naturalmente non in persona ma in un vecchio video, trasmesso da un monitor) che ricorda un tenero episodio tra Flaiano e la figlia malata.
Pur avendo preventivamente letto il libretto, è difficile capire quel che succede in scena, a causa del testo solipsistico, indifferente a quel che arriva o non arriva allo spettatore, che resta spaesato dall’inizio, poiché probabilmente ignora il fiasco di Flaiano nella Milano del 1960, fino alla conclusione, poiché non riconosce Guerra né sa a chi si riferisce il suo racconto. Quel che si vede in scena accentua il disorientamento, con la regia di Fabio Cherstich - che in qualche modo cerca di mantenere un collegamento con il testo - soverchiata dagli autoreferenziali video di Gianluigi Toccafondo, nei quali si riconosce subito e senza ombra di dubbio il segno dell’autore - che il pubblico è abituato a vedere in tutti i materiali promozionali dell’Opera di Roma - ma il cui rapporto col testo e la musica resta oscuro.
Il protagonismo del testo e dei video ha costretto a lasciare per ultima la musica, che pure era l’aspetto più convincente e riuscito del Romano a Marte. Per dare un’idea dello stile musicale di Montalti si può dire che guarda ai grandi compositori della seconda metà del secolo scorso, non però al loro periodo dell’avanguardia quanto al loro ultimo periodo, più moderato: Berio e Ligeti, per fare qualche nome. Come nell’avanguardia di cinquant’anni fa il testo è talvolta spezzettato nei suoi singoli fonemi ma questo produce un risultato totalmente diverso, nient’affatto astruso e spigoloso ma al contrario felice e gradevole, che resuscita in chiave moderna i folli concertati di Rossini, con le loro ripetizioni ossessive e i loro ritmi ostinati. Altrettanto ben scritti i due grandi interludi strumentali.
Orchestra del Teatro dell’Opera concentrata e precisa sotto la bacchetta di John Axelrod. Non si poteva desiderare di meglio dai giovani interpreti, i cantanti Rafaela Albuquerque (Ilaria Occhini), Domingo Pellicola (Ennio Flaiano) e Timofei Baranov (Knut) e gli attori Gabriele Portoghese (il Critico) e Valeria Almerighi (Caterina Martinelli).
Tirando le somme, non si può non salutare con soddisfazione la presentazione di una novità assoluta da parte del teatro lirico romano e il fatto che sia stata applaudita calorosamente dal numeroso pubblico
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