Un Giulio Cesare affascinante ma non troppo espressivo

Milano: Raffaele Pe, col gruppo La Lira di Orfeo, impegnato in un programma settecentesco dedicato al condottiero romano

Raffaele Pe, Raffaella Lupinacci, La Lira di Orfeo (Foto Giorgio Marturana)
Raffaele Pe, Raffaella Lupinacci, La Lira di Orfeo (Foto Giorgio Marturana)
Recensione
classica
Sala Verdi del Conservatorio “Giuseppe Verdi”, Milano
Giulio Cesare. Eroe barocco.
14 Gennaio 2020

Le idi di marzo non portano bene, anche se siamo in gennaio. L’idea dalla quale è partito Raffaele Pe, apprezzato controtenore della nuova generazione di interpreti, era piuttosto avvincente sulla carta: un programma incentrato sulla figura di Giulio Cesare, che nel Settecento è stata una delle più in voga tra i librettisti, mentre l’opera italiana spopolava nei teatri e nelle corti di tutta Europa. Potendo contare innanzitutto sul magistero di Georg Friedrich Händel, il cui Giulio Cesare in Egitto rappresentava un serbatoio di brani di eccezionale bellezza, Raffaele Pe ha scelto di puntare anche su nomi meno noti del panorama italiano, inserendo due autori come il cremonese Francesco Bianchi e l’emiliano Geminiano Giacomelli in mezzo ai più conosciuti Nicolò Piccinni e Carlo Francesco Pollarolo, quest’ultimo artefice del titolo più antico tra quelli proposti: il Giulio Cesare nell’Egitto, messo in scena a Roma nel 1713. Insieme alle sinfonie che aprivano alcune delle opere in questione, le arie eseguite da Pe, insieme al suo gruppo La Lira di Orfeo, hanno offerto un interessante panorama non solo della vocalità che i compositori del ‘700 poterono sfruttare (grazie anche alla presenza di celebri castrati quali Gasparo Pacchierotti o Francesco Bernardi, detto “Il Senesino”) ma anche del progressivo cambiamento stilistico che attraversò il linguaggio teatrale.

Non particolarmente piena la Sala Verdi del Conservatorio milanese – peraltro non il posto più favorevole per un simile repertorio – ma il pubblico della Società del Quartetto ha potuto sicuramente apprezzare le doti vocali di questo giovane controtenore, già affermato anche sulla scena europea. Ed è doveroso ricordare che, per via dello stesso utilizzo della voce maschile in falsetto, non è facile trovare interpreti in grado di reggere il confronto con un repertorio così intriso di virtuosismi e tensioni espressive. Emblematica in questo senso l’aria di Handel “Va tacito e nascosto”, in cui il controtenore ha felicemente duettato con il corno obbligato.

Però dal punto di vista interpretativo qualcosa è mancato. Come se – restando in una metafora teatrale – fosse assente una regia generale e le scene fluissero in maniera indiscriminata, una dopo l’altra, senza particolare attenzione ai quei particolari che avrebbero potuto conferire ben altro spessore alla serata. Anche la stessa organizzazione del programma è risultata un po’ anonima nella sua successione di brevi brani separati, laddove – anche su un palcoscenico come quello della Sala Verdi – si sarebbe potuta studiare una soluzione per collegare brani strumentali e vocali, inventando qualcosa di più originale per l’ingresso dei cantanti. Già, cantanti, perché oltre a quella di Pe va ricordata la presenza del mezzosoprano Raffaella Lupinacci per l’unico duetto della serata, lo struggente “Son nata a lagrimar”, incantevole ma non perfetto nell’equilibrio tra i due interpreti. E comunque, specie nei brani strumentali o nelle arie più virtuosistiche, l’esecuzione è sembrata spesso sbilanciata in avanti, insomma a tutto vapore, privando la musica di molte delle sfumature espressive che una maggiore cura dell’agogica avrebbe messo in evidenza, a tutto beneficio del pubblico. Generosi applausi finali, ma l’occasione di far conoscere un repertorio non troppo frequente nelle sale del nostro paese non si può dire che sia stata sfruttata nel migliore dei modi. Del resto se Giulio Cesare, nelle sue conquiste d’oltralpe, avesse viaggiato con l’alta velocità il “De Bello Gallico” si sarebbe ridotto a una manciata di appunti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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