Un Beethoven in crescendo con Dudamel

Non privo di ombre il concerto del direttore venezuelano che ha chiuso la stagione dell’Accademia di Santa Cecilia

Gustavo Dudamel
Gustavo Dudamel
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Gustavo Dudamel
15 Giugno 2019 - 17 Giugno 2019

Gustavo Dudamel è venuto le prime volte a Roma con l’Orchestra Sinfonica Giovanile del Venezuela creata dal Sistema Abreu. Aveva poco più di vent’anni ed era il direttore giusto per un’orchestra così particolare, che suppliva ai limiti e alle imprecisioni con l’entusiasmo e la foga, al punto che nei bis gli strumentisti si alzavano e facevano la ola come allo stadio. Come se non fosse bastato, Dudamel non cercava affatto di incanalarli, anzi li eccitava e li scatenava: il risultato, a non voler essere ipercritici, non era affatto disprezzabile e comunque quei giovani venezuelani – direttore e orchestra – facevano un effetto molto simpatico. E poi avevano il patrocinio di Claudio Abbado e tanto bastava. 

Dudamel tornò a Roma poco dopo, nel 2008, per dirigere la Terza di Mahler con i complessi di Santa Cecilia: forse era troppo presto, aveva solo ventisette anni, e più che una interpretazione coerente offrì una serie di momenti molto veloci o molto lenti, con l’unica costante di un suono sempre molto presente, molto fisico, ma poco controllato. Sono passati altri undici anni e Dudamel è adesso un direttore di quasi quarant’anni, con una lunga esperienza stabile alla Los Angeles Philharmonic e con frequenti presenze sul podio delle orchestre più blasonate, custodi del grande repertorio austro-tedesco, come i Berliner Philharmoniker, con cui ha compiuto anche tournée internazionali. Ma non ha dimenticato il suo impegno sociale, soprattutto per portare la musica ai più disagiati. E questo continua a renderlo simpatico, e non solo a me, ma a tutti, come dimostra il tutto esaurito del suo concerto beethoveniano, che chiudeva la stagione dell’Accademia di Santa Cecilia. 

Ma se veniamo ai risultati, non sono mancate le ombre. Nonostante abbia già qualche filo bianco tra i capelli, Dudamel è rimasto in fondo lo stesso di quando aveva vent’anni: ha un senso molto fisico del suono e, più che approfondire le partiture che ha sul leggio, si affida all’istinto. Ha iniziato con l’ouverture dell’Egmont, un brano difficile sia sotto l’aspetto interpretativo che tecnico. I tre brevi motivi iniziali devono essere contrastanti ma allo stesso tempo incatenarsi l’uno all’altro, come ad esprimere il viluppo di forze morali da cui nasce la tragedia di Egmont, ma Dudamel li ha semplicemente accostati l’uno all’altro, valorizzandoli come melodie cantabili pure e semplici e lasciandosene sfuggire totalmente il lato metafisico. Più avanti l’esplosione del fortissimo più che violenta, minacciosa e cupa era rumorosa e i timpani erano chiamati a fare un fracasso incredibile, con ogni colpo che sembrava l’esplosione di un petardo (il timpanista lo abbiamo sentito tante altre volte e sicuramente non era farina del suo sacco). Tutto, e in particolare i rapporti dinamici tra gli strumenti, era un po’ precario e questo non è certo nello stile dell’orchestra romana, che avrebbe potuto perfino regolarsi da sola ma che sembrava ostacolata più che aiutata dalle indicazioni poco chiare del direttore. Sembrava una prima lettura, invece eravamo alla terza e ultima replica del concerto. 

Le cose cominciano ad andar meglio con la Quarta Sinfonia. A dire il vero nel primo movimento si avvertono gli stessi difetti dell’Egmont ma in scala ridotta: un po’ pesante, senza quei piccoli crescendo, quelle piccole differenziazioni dinamiche, quei giochi tra le varie sezioni dell’orchestra che danno leggerezza e scatto a questa che Schumann definì “una slanciata fanciulla greca tra due giganti nordici”, quali sarebbero la Terzae la Quinta. Molto meglio l’Adagio, cantato sottovoce, e abbastanza bene il terzo movimento (dove però torna il demone di Dudamel per i fortissimo fuori controllo) e molto bene alcuni passaggi del finale.  Non male, nel complesso, ma in definitiva una Quartapiuttosto ordinaria.

Dopo l’intervallo si volta pagina con la Settima. Già l’introduzione lenta e la successiva ben calibrata transizione al Vivace fanno capire che qualcosa è cambiato. Da qui in avanti Dudamel si affida molto al ritmo, che è l’aspetto predominante di questa sinfonia: ora sembra giocare in casa e sullo slancio del ritmo e del tempo giusti tutti i rapporti all’interno dell’orchestra trovano in modo naturale la loro sistemazione. Bene l’Allegretto, in cui Dudamel si abbandona alla melodia ma senza banalizzarla in un canto spiegato e seguendone la progressiva crescita interiore ad ognuno dei suoi quattro ritorni. Ma il meglio deve ancora venire. Lo Scherzo è danzante, leggero, fresco, il duplice Trio appare non come un diversivo senza un rapporto dialettico col resto, ma un momento di riflessione, come un canto semplice, popolare, spirituale: non è sicuro che sia – come si dice – un canto di pellegrini, ma appare comunque plausibile. L’Allegro con briof inale è, come il più delle volte, preso a una velocità folle, ma resta leggero, brioso, con una stretta finale trascinate e irresistibile. Gli applausi, già piuttosto calorosi dopo la Quarta, sono ora esplosivi, secondo l’immutabile legge fisica che dice che dopo un finale fragoroso gli applausi sono altrettanto fragorosi. 

 

 

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