Un ballo in maschera convenzionale a Venezia
L'opera di Verdi apre la stagione della Fenice, primo allestimento della nuova sovrintendenza Ortombina
“Sei la donna del mio amico / e a qualunque costo / non possiamo fargli questo / non sarebbe giusto” cantavano i Pooh, ma lo sapeva già bene il Riccardo del Ballo in maschera, opera verdiana che apre la stagione del Teatro la Fenice, sotto una pioggia vagamente viscontiana di volantini che scendono come foglie autunnali in platea a urlare basta al proliferare di alberghi in città.
Primo allestimento della nuova sovrintendenza Ortombina, questo Ballo non sembra particolarmente convincente: la regia del giovane Gianmaria Aliverta risulta piuttosto convenzionale, senza una vera trovata che possa incunearsi nella necessità narrativa, aprendone il senso a nuove prospettive.
L’idea di trasporre la vicenda – data la tormentata genesi dell’opera, trasposizione più, trasposizione meno… – dalla fine del Seicento alla seconda metà dell’Ottocento (epoca in cui fu composta e in cui il significato politico poteva riverberare anche le nostrane vicende di allora) dovrebbe consentire di evocare i terribili anni della guerra di secessione e dell’abolizione della schiavitù, ma il tutto resta un po’ didascalico e sullo sfondo e quasi mai l’intento del regista di fare emergere le ragioni politico-economiche del dramma si realizza compiutamente in modo drammaturgico.
Scenicamente, l’idea di caratterizzare l’antro di Ulrica con tanti specchi “animati” è interessante e funziona, ma gli altri quadri non sono particolarmente entusiasmanti, indecisi tra un austero realismo e la presenza di strutture quasi “totemiche” (la pietra rotante del secondo atto, una grande testa della Statua della Libertà per il ballo) che stentano a prendersi la scena e paradossalmente risultano ancor più appesantite dalla loro stessa artificiosità.
Musicalmente la serata ha un trionfatore unico, un meraviglioso direttore che risponde al nome di Myung-Whun Chung. Davvero splendida la sua lettura della partitura verdiana, in grado di sottolinearne tutti i colori, lavorando sulla finezza delle dinamiche con una stupefacente naturalezza.
Della compagnia di canto si segnala la matura interpretazione di Francesco Meli, nel ruolo di Riccardo: chiarezza e equilibrio non gli fanno mai difetto ed è un gran bel sentire.
A loro due, non a caso, vanno gli applausi più convinti di un pubblico caloroso senza eccessi. Piace alla platea anche il vivace paggio Oscar reso da Serena Gamberoni, mentre il resto del cast non convince, a partire dall’Amelia di Kristin Lewis.
“Scappa via scappa via scappa via / non mi dare il tempo mai di poter cambiare idea” si sgolava Robi Facchinetti, allontanando da sé la donna amata e impossibile da amare.
Al Conte Riccardo il tempo di poter cambiare idea (anche lui ha appena decretato l’allontanamento della tentazione Amelia con una lettera di trasferimento) non lo dà lo sparo assassino dell’amico tradito, Renato.
Al pubblico, complessivamente più che generoso (forse in pieno “mood” Black Friday), non lo dà il bel clima complessivo della serata, con una Venezia luminosa e tersa nelle cui calli spariscono progressivamente i cappotti e gli abiti lunghi.
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