Tutto i quartetti di Ludwig
Si apre all’Accademica Filarmonica Romana il ciclo dedicato a Beethoven
Quale inizio se non quello del terzo dei cosiddetti Quartetti “Rasumovsky” poteva essere più emblematico per aprire un ciclo dedicato ai Quartetti scritti da Ludwig van Beethoven? Ideale davvero per dare al pubblico il benvenuto in quel mondo affascinante e misterioso costituito dai sedici lavori scritti dal compositore tedesco per la più rappresentativa delle formazioni cameristiche. E i musicisti del Quartetto Pavel Haas hanno incantato fin dalla prima nota, trasportando l’ascoltatore in quel mondo grazie a un calore e a una delicatezza di suono di particolare fascino, pronti a scattare sul tempo più rapido che segue la breve introduzione posta al principio di questo capolavoro. Si è aperto nel migliore dei modi il ciclo dedicato al musicista di Bonn che l’Accademia Filarmonica Romana ha voluto inserire nella propria stagione 2019-2020 e che – fino al prossimo 26 marzo – prevede quattro concerti affidati a quattro diverse e prestigiose formazioni: dopo il Pavel Haas, nell’ordine, sarà la volta del Belcea, del Jerusalem e infine del Quartetto Hagen. Scelta coraggiosa quella di riportare l’attenzione sulla più pura delle forme cameristiche in una città che sembra più propensa a seguire proposte sinfoniche o pianistiche, sicché – senza voler fare confronti con altre e più strutturate realtà musicali del nostro paese – il pubblico romano presente al Teatro Argentina ha brillato più per attenzione che per i numeri. Tuttavia è solo con proposte di questo tipo che si potrà tentare di formare un nuovo pubblico, aperto e curioso anche nei confronti di programmi musicali non dettati solo da logiche di mercato o dalla maggiore notorietà degli interpreti coinvolti e/o dei brani in programma.
Formazione ancora giovane ma dall’elevato grado di coesione, visibile anche dalla posizione molto raccolta che ha assunto sul palco dell’Argentina, il Quartetto Pavel Haas ha giocato su sfumature espressive di grande raffinatezza, come nel secondo movimento del citato quartetto op. 59 n. 3, dove il pizzicato affidato al violoncello viene a costituire la base su cui Beethoven sperimenta soluzioni impensabili per la sua epoca. Sia in questo lavoro che nell’ampia seconda parte – con l’accostamento della Grande Fuga op. 133 al celeberrimo Quartetto op. 130, del quale era l’originale movimento conclusivo – i quattro esecutori provenienti dalla Repubblica Ceca hanno puntato su sonorità generalmente non esasperate, privilegiando un dialogo tra strumenti che parlano molto educatamente (e democraticamente) tra di loro, senza mai prevaricarsi l’un l’altro, un’interpretazione insomma che ha favorito in gran parte dei casi l’intelligibilità del discorso musicale insito nelle pagine del grande compositore. E tuttavia proprio nella Grosse Fuge – una monumentale pagina che ancora oggi lascia l’ascoltatore a bocca aperta – si è perso qualcosa del carattere serrato della scrittura polifonica, quasi che il frequente ricorso allo sforzato previsto dalla partitura mettesse a dura prova la compattezza interpretativa dei musicisti. Artefici comunque di una serata di livello più che encomiabile, che si è conclusa, a grande di richiesta del pubblico, con un delizioso bis dedicato, non a caso, a Dvořák.
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